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Quando l’infermiere perde identità professionale diventa un tassello all’interno del sistema

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Quando l’infermiere perde professionalità e diventa un tassello all'interno del sistema...
Missing pieces from a jigsaw puzzle revealing health and safety
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Alcune riflessioni sul nostro lavoro e sul modo in cui noi stessi lo vivamo

Cosa legittima il nostro agire? Un neolaureato probabilmente risponderà: “Il mio profilo professionale, la mia formazione, il mio codice deontologico; soprattutto la legge, che in questi tre pilastri ravvisa il campo di attività e di responsabilità di ogni infermiere (L. 42/99)”.

Un neolaureato, di fronte a una situazione imprevista, andrà a cercare qualche protocollo aziendale, a rispolverare le linee guida, chiedendo supporto a chi è più esperto. Un neolaureato soffrirà quando alla suddetta domanda un collega replicherà, invece: “Si è sempre fatto così”.

Non è solo la lotta tra prima e dopo, tra generazioni, tra progresso e anacronismo. La decisione, che non nasce dal ragionamento ma dalla consuetudine aziendale, trova le sue radici in un distinto tipo di agente: non nel professionista scrupoloso, bensì nel dipendente ligio al dovere. I due ruoli non sono affatto in contrapposizione (anzi il buon lavoratore è, almeno in teoria, colui che sa esercitare al meglio, anche denunciando, all’occorrenza, quanto non funziona), ma lo diventano quando il professionista semplicemente scompare, inglobato …

Che tra organizzazioni e autonomia professionale si generi attrito non è una novità, ma qui stiamo parlando di uno conflitto che quasi sempre, invece, non è mai nato. Questo è il problema. Chi non conosce i confini del proprio campo di attività, accettando attribuzioni demansionanti e prendendo decisioni sulla base di linee gerarchiche vere o presunte, senza soppesarne le implicazioni giuridiche e morali, trova evidentemente la propria legittimazione unicamente nell’organizzazione di cui fa parte.

Niente profili professionali, master, evidence-based nursing. La sua identità personale (Francesca/Lucia) non solo non si identifica con quella professionale (l’infermiera Francesca/Lucia), ma quest’ultima si riduce, spogliandosi della consapevolezza della propria professionalità e di ciò che essa comporta. Il lavoratore e l’infermiere non vanno a braccetto, bensì il primo schiaccia il secondo.

Il professionista si sottrae all’attribuzione di responsabilità, divenendo, invece, il tassello obbediente di una macchina burocratica. Costui non potrà mai arrivare a uno scambio fecondo di idee con il professionista che invoca prese di coscienza, in quanto i due sguazzano in laghi differenti e separati da terreni incolti. Non è possibile gettare un ponte. Bisogna alzarsi, camminare, andare a bagnarsi in altre acque (studiando? Aggiornandosi? Fosse così semplice, ci saremmo già riusciti… ). Inutilmente fiata, di persona o sui social, chi tenta di convincere a seguire la normativa, ad avere percezione di un’evoluzione professionale che da altri non può essere vista.

Il professionista moderno si assume la responsabilità, esamina la situazione, accertandola, valutandola, stabilendo se ha le conoscenze e competenze necessarie per farvi fronte. Si pone criticamente di fronte ai problemi, ma soprattutto si pone in prima persona, in qualità di Francesca/Lucia. Non si nasconde dietro l’organizzazione (“Si è sempre fatto così”), dietro le decisioni di altri (“Me lo ha detto Tizio”). Quando qualcosa non gli compete, perché esce dal suo campo di attività, rifiuta motivando le proprie ragioni. Avverte il merito e la colpa del suo agire, e per questo si presenta al paziente (“Buongiorno, sono l’infermiera Francesca/Lucia”): vuole essere riconosciuto autore delle proprie decisioni, nel bene e nel male…  insostituibile.

Il concetto di insostituibilità/sostituibilità all’interno delle organizzazioni è espresso ottimamente da Bauman in questo passaggio di Le sfide dell’etica:

“Come individui, siamo insostituibili. Però non siamo insostituibili come attori impegnati in uno dei nostri molti ruoli. Qualcuno lo farà comunque”.

Così ci consoliamo a vicenda, e non senza ragione, quando consideriamo moralmente sospetto o sgradevole il compito che ci è stato chiesto di eseguire… Di nuovo la responsabilità è stata fatta “fluttuare”.

La responsabilità “fluttuante” è quella dell’infermiere di oggi … Infermiere timoroso, divorato dalla precarietà e dalla flessibilità, tassello uguale a tutti gli altri tasselli. Quando gli si chiede “perché fai ciò che non ti compete?” (es.: mansioni alberghiere al posto dell’OSS, trasporto salme, incombenze amministrative, etc.), la risposta sconsolata è quasi sempre: “Si è sempre fatto così” (decide l’organizzazione) e “Se non lo faccio io, non mi rinnoveranno il contratto, ma qualcuno lo farà comunque al mio posto” .

Il lavoratore sostituibile è il lavoratore impotente, ignorato, e chi non ha diritti in qualità di lavoratore ancora meno potrà esercitarli in qualità di – e riconoscendosi come – professionista autonomo. È un lavoratore, prima ancora che un professionista, deresponsabilizzato.

Qui torna anche, evidentemente, il tema dell’infungibilità, della specializzazione e del suo riconoscimento. Ricordiamo che, laddove il dirigente medico spesso “si fa un nome”, riuscendo a farsi conoscere per l’unicità della sua bravura, il professionista infermiere resta anonimo, ai margini. L’infermiere di oggi non è più esecutore del medico, ma pur sempre esecutore rimane: dell’azienda della quale è tassello sostituibile e flessibile (un giorno in una unità operativa, il giorno dopo in un’altra, se occorre; nel disconoscimento del suo curriculum, della sua formazione specifica, della sua storia personale e professionale).

Non basta appellarsi rabbiosamente al paradigma giuridico, ricordando il DM 739/1994. Non basta implorare di mandare in pensione quanti sono rimasti agli anni delle calze bianche e del mansionario. Non basta osteggiare i filosofi della lanterna né ghigliottinare la classe dirigenziale. Il problema è di identità. Alcuni infermieri risponderebbero alla domanda originaria di questa riflessione (cosa legittima il nostro agire?) con un: “Me l’ha ordinato il medico”. Inutile scandalizzarsi, è – ancora, in molte realtà – così.

Agli ordini non si può che obbedire ma, come ci ricorda Hannah Arendt, un bambino obbedisce, mentre un adulto acconsente, sempre (perfino nel contesto militare, nel quale alcuni ordini – qui sì, chiamati giustamente tali – sono vincolanti, il vincolo non è mai assoluto, incontrando un limite nella manifesta criminosità dell’ordine stesso, vedi art. 4 L. 382/1978). Tornando a noi infermieri, quando diventeremo professionisti adulti?

 

Daniela Pasqua

 

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