In un Paese con 125mila aggressioni l’anno contro gli infermieri, celebriamo protocolli come fossero scoperte archeologiche di una civiltà perduta.
In un mondo ideale la sicurezza degli operatori sanitari sarebbe un concetto così ovvio da non meritare né firme né conferenze stampa. In Italia, invece, è una festa. Una celebrazione. Una conquista epocale.
È questo il tono, tra il solenne e il trionfalistico, con cui è stato presentato il Protocollo anti-aggressioni firmato da Asl Taranto e Prefettura di Taranto: un documento che, nelle intenzioni istituzionali, sancisce “un nuovo modello di tutela e collaborazione” volto a prevenire la violenza nei confronti del personale sanitario.
E meno male che esiste la Prefettura, verrebbe da dire. Perché, se dovessimo aspettare che la sicurezza nasca dal buon senso, potremmo chiudere i reparti con cartelli tipo “Riapriamo quando la civiltà torna disponibile”.
Quando la sicurezza diventa una conquista e non un diritto
La verità amara è che in Italia la sicurezza degli infermieri è trattata come qualcosa di straordinario, non di ordinario. Uno di quei miracoli burocratici che richiedono protocolli, tavoli tecnici, firme, dichiarazioni ufficiali, foto istituzionali. Eppure dovrebbe essere semplice: non picchiare chi ti cura; non insultarlo; non minacciarlo; non trasformarlo in punching-ball emotivo quando il sistema non funziona.
Un principio basilare di convivenza civile che, in un Paese normale, verrebbe dato per scontato. Da noi, invece, va regolamentato con articoli, paragrafi, misure preventive e “strategie integrate di sicurezza”. È il segno dei tempi: più i concetti sono elementari, più diventano oggetto di protocolli complessi.
Italia: primo Paese in Europa (ma nella classifica sbagliata)
Secondo i report ufficiali diffusi, in Italia si registrano oltre 125mila aggressioni l’anno ai danni degli operatori sanitari. Un numero che ci colloca tra i Paesi europei con la più alta incidenza di violenze contro infermieri e medici.
Non solo. Come denunciato dai report, più del 70% degli infermieri ha subito almeno un episodio di violenza nella propria carriera, e uno su tre dichiara di aver vissuto più aggressioni nell’ultimo anno che in tutto il decennio precedente.
In qualunque altra nazione, questi numeri farebbero scattare piani straordinari, investimenti immediati, task force. In Italia fanno scattare… un protocollo e una conferenza stampa. Con tanto di foto ricordo.
Il protocollo: scudo istituzionale o carta lucida?
Nel documento firmato da Asl Taranto e Prefettura si parla di misure. Sacrosante, certo, ma che hanno un sapore amaro: sono la risposta formale a un problema che non dovrebbe esistere. La verità è che questo protocollo rappresenta un paradosso tutto italiano: siamo costretti a festeggiare l’ovvio, perché l’ovvio non è garantito.
E allora eccoci qui, a celebrare un accordo che serve a ricordare che gli infermieri non devono essere aggrediti mentre lavorano. Come se fosse una conquista e non la base stessa della civiltà.
Fnopi: “Serve una cultura del rispetto”. E serve anche sopravvivere fino a quando arriverà
La Fnopi, nelle sue comunicazioni ufficiali, ribadisce che “occorre promuovere un clima di rispetto tra professionisti e cittadini, restituendo valore alla relazione di cura”. Un concetto nobile, quasi poetico. Peccato che, nella realtà, gli operatori continuino a raccontare di minacce, spintoni, lanci di oggetti, insulti quotidiani e turni in cui l’unico momento tranquillo è quando si rompe il computer.
E in questo quadro i protocolli diventano ciò che possono: non una soluzione, ma un argine simbolico; un messaggio politico più che operativo; una promessa di attenzione in un mare di disattenzione.
Il vero paradosso: festeggiamo ciò che dovrebbe essere normale
Non ridiamo del protocollo, che è utile, doveroso, legittimo. Ridiamo del paradosso culturale che lo circonda. Ci congratuliamo per aver stabilito che un infermiere non deve essere colpito mentre fa il triage. Ci emozioniamo per il fatto che venga istituito un “numero dedicato” per le segnalazioni. Ci compiaciamo per la presenza delle forze dell’ordine.
E dimentichiamo che la sicurezza sul lavoro non è un privilegio, ma un diritto costituzionale. Che il rispetto del personale sanitario non è un favore, ma una condizione di civiltà. Che la tutela fisica ed emotiva di chi cura non può dipendere da un protocollo, ma da una società che ha ancora chiaro il concetto di rispetto.
Conclusione: eroi per forza, protetti per finta
Alla fine, tra protocolli e cerimonie, gli infermieri tornano in reparto. Tornano dove le aggressioni non arrivano via Pec, ma con urla, mani, rabbia e frustrazione sociale. Tornano dove la sicurezza non è un concetto, ma una speranza. E continuano, nonostante tutto.
Nonostante la carenza di personale, le ore infinite, l’usura emotiva, la sensazione di essere esposti e poco tutelati. E alla fine resta solo una verità amara: siamo un Paese che deve firmare protocolli per ricordarsi di non picchiare chi gli salva la vita.
Guido Gabriele Antonio
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