Il celebre cantante Nicolò Fabi, che da dieci anni dedica molto del suo tempo agli abitanti dell’Angola e del Sudan, ha potuto toccare con mano l’attività svolta dai professionisti sanitari italiani operanti in quelle zone.
“Ho visto infermieri e medici partiti per un anno, restare lì tutta la vita. E mamme assistere figli senza speranza”
Il cantante afferma di aver trovato «innanzitutto, l’Italia migliore», quella parte di connazionali eccezionali per i quali sarebbe valsa la pena percorrere un così lungo viaggio, anzi i numerosi viaggi sostenuti negli ultimi dieci anni a favore del Cuamm (Collegio universitario aspiranti medici missionari) meglio noto come Medici con l’Africa, l’ong-onlus padovana fondata nel 1950 dal vescovo Girolamo Bortignon e dal professor Francesco Canova.
«Mi piace quel “con”: Medici con l’Africa e non per l’Africa» Fabi sottolinea quello che non gli pare un dettaglio. «Dimostra che non hanno un approccio assistenzialista all’Africa, come continente da aiutare. Mi è piaciuto il loro modo di operare, molto pratico rispetto ai progetti di molte grandi fondazioni occidentali. Sono stato fortunato ad avere, fin dal principio, la possibilità di attraversare l’Africa lungo gli itinerari meno turistici. E ogni volta torno a casa portando con me le storie dei nostri espatriati: medici, ma anche infermieri, tecnici, addetti alla logistica, volontari. Uomini e donne che nascono nella parte più agiata del pianeta e decidono di andarsene laggiù, nei villaggi delle zone rurali, magari con l’idea di fare soltanto un anno di esperienza. Ma poi ci restano per tre o quattro anni, o per tutta la vita. Avrebbero potuto pensare alla loro carriera, diventare primari in Italia, invece se ne stanno in Africa».
La vita può essere molto amara per le donne, nei villaggi dell’Africa profonda, e Niccolò Fabi ne parla con un mix di ammirazione e stupore:
«C’era una madre in Angola che, da più di un mese vegliava il suo bambino malato. Il piccolo lottava per sopravvivere, ma lei aveva altri cinque o sei figli che l’aspettavano al villaggio e ha chiesto con impazienza alla dottoressa italiana: “Insomma, vive o muore?”. Non poteva perdere troppo tempo a spiare i minimi miglioramenti del figlio. Doveva tornare dagli altri. C’è una crudeltà molto animalesca, ma comprensibile, in questa necessità di far sopravvivere i più forti».
Che cosa non bisogna dimenticare di mettere in valigia, partendo per l’Africa?
«Curiosità e desiderio di conoscere, che non occupano spazio e pesano niente. E un po’ di umiltà. Al ritorno, nel mio bagaglio ho sempre un’opinione più alta degli italiani, dell’Italia che ho visto lavorare laggiù, ssenz’ombra di cinismo, di violenza, di apatia».
Simone Gussoni
Fonti; Corriere
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