Eboli piange per la morte di Lucio Fulgione, infermiere di 52 anni ricoverato ai primi di dicembre e deceduto nella notte della vigilia di Natale.
”Davanti la chiesa principale del mio paese, all’estremità della piazza che ne è il simbolo, osservo quella bara ed il freddo si fa più pungente. Il cielo è a lutto, pieno di nuvole e fa precipitare lacrime sottili sugli ombrelli aperti.
Siamo in pochi, tutti distanti, nascosti da mascherine tra loro diverse, più di quanto lo siano mai stati i volti. Ognuno è solo, nei suoi pensieri e nel suo dolore, osserva quella cassa di legno e promette al corpo che contiene, allo spirito che sente nell’aria ma soprattutto a se stesso che non dimenticherà quell’uomo, quel professionista, quell’amico.
Non è Natale oggi. Non può esserlo. Osservo intorno a me un mondo rallentato e faccio fatica a muovere ogni muscolo del mio corpo, devo sforzarmi anche solo per pensare. Ogni pensiero mi riporta al tuo viso, al tuo sorriso che non perdevi mai, al tuo sguardo, ironico come il timbro della tua voce. I ricordi insieme. Condividevamo lo stesso lavoro, le stesse aspirazioni, le stesse ansie.
Ricordo i tuoi discorsi, ti definivano: le tue parole erano sempre di amore. L’amore aveva riempito la tua vita. Amavi i tuoi figli, orgoglioso dei loro progressi, preoccupato del loro futuro. Amavi tua moglie e la dolcezza con la quale riusciva a condividere i tuoi progetti, modificandoli e migliorandoli, permettendoti di realizzarli, insieme. Amavi le persone della tua famiglia, decimata da lutti anche recenti. Amavi gli alani che allevavi con passione. Amavi la casa che stavi costruendo studiandone puntigliosamente tutti i dettagli, affinché potesse essere il nido sicuro che volevi per te ed i tuoi cari.
Amavi la tua professione di infermiere, così tanto da trasmettere al tuo primogenito la stessa passione, la stessa aspirazione a “prendersi cura” ed a farlo bene. Se una parola può descrivere la tua vita, quella parola, indiscutibilmente, è Amore.
Essere infermiere in terapia intensiva ti aveva portato ad essere in prima linea nella lotta a questo virus sconosciuto. Con i tuoi colleghi indossavi quella tuta, un’armatura con dietro il tuo nome e, in essa, cercavi di sentirti sicuro, protetto. Non lo eri. Hai dovuto vivere l’esperienza di trovarti, in pochi giorni, da infermiere a paziente in quello stesso reparto.
E’ stato tremendo, inimmaginabile. Non è stato facile nemmeno per i tuoi colleghi veder spegnersi il tuo sorriso su quel letto infame. Li sentivo singhiozzare quando chiedevo come stavi. No, non è stato semplice per loro restare professionisti infermieri e medici rimanendo colleghi ed amici.
Tra due giorni arriverà un vaccino. Troppo tardi per te.
Tutto è fermo, un silenzio ovattato ci avvolge, nulla sembra vero, chiusi in una bolla, sembra sia tutto un incubo.
Il “rito di commiato” concede pochi minuti ai pensieri, si chiudono le porte dell’auto funebre , nella pioggia restiamo soli ed il mondo riprende i suoi rumori. Il cielo resta cupo, opprimente, schiaccia le nostre anime mentre ci disperde, ognuno nella sua vita, con un’angoscia in più.”
Massimo Arundine
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