Lo stress acumulato durante l’emergenza Covid ha indotto la 55enne Sabrina Iacchetti, ex caposala dell’Ospedale Maggiore con 36 anni di servizio alle spalle, a cambiare vita.
Una sconfitta? Forse non per lei, che ha anzi ricominciato a vivere, ma di sicuro per la professione che a lungo ha esercitato, divenuta un calvario. Per lei, come per molti altri. Parliamo di Sabrina Iachetti, ex infermiera caposala dell’Ospedale Maggiore di Lodi.
Già, ex, perché a 55 anni ha deciso di lasciare il lavoro scelto in giovane età e, dopo ben 36 anni di servizio, di cui quasi due trascorsi in prima linea contro il coronavirus, ha svoltato completamente. Il 27 gennaio scorso si è infatti dimessa e ha cambiato mestiere. Oggi si occupa della gestione amministrativa dell’azienda di fotovoltaico di proprietà dei suoi fratelli, appena fuori Lodi. In pratica, fa la segretaria.
Intervistata dal Corriere della Sera, ha così spiegato la sua scelta: «Perché mi sono dimessa? Perché non ce la facevo più. I mesi più duri del Covid sono stati terribili. Da febbraio 2020, tra turni impossibili e ritmi infernali, ho gestito il primo reparto di sub-intensiva in Europa, curando pazienti che per complessità sono inferiori solo alla rianimazione. Non è stato facile. A cinque anni dalla pensione ho dovuto cambiare vita per poter andare avanti».
Lo stress accumulato durante i durissimi turni di lavoro degli ultimi due anni le sono costati una diagnosi di pandemic fatigue: una stanchezza insidiosa, che giorno dopo giorno porta alla perdita di fiducia, di speranza, e alla rabbia. «Ho deciso di prendermi una pausa – ha detto –. In questo momento sono nauseata dalla sanità e da come è cambiata . L’infermiere è sottopagato e stressato. Non è facile andare avanti e capisco anche i tanti colleghi che hanno deciso di lasciare. Per me non è stato facile, dopo 36 anni di lavoro, cambiare vita».
Ancora oggi referente regionale Irc (Italian Resuscitation Council), associazione che riunisce operatori impegnati nella rianimazione cardiopolmonare, Sabrina ha poi ricordato: «Quello che abbiamo vissuto all’ospedale di Lodi nei primi giorni del Covid non lo dimenticherò mai: la paura, i pazienti che arrivavano, l’incertezza. Per 40 giorni consecutivi, in pratica fino a Pasqua 2020, sono rimasta in corsia. Turni lunghi, senza mai un giorno di riposo. Ma la seconda ondata, iniziata a ottobre 2020, è stata per certi aspetti ancora più violenta. Tutto il personale si è trovato a gestire i malati Covid, che aumentavano costantemente, trasformando interi reparti in aree dedicati ai pazienti con il virus. E nel frattempo dovevamo anche cercare di recuperare le liste d’attesa per le visite ambulatoriali. E gli infermieri per l’area Covid erano sempre meno».
Ora la sua vita è cambiata in meglio: «I cambiamenti non mi hanno mai spaventato. Devo ammettere che mi trovo bene nel nuovo lavoro. A giovarne è sicuramente la qualità della mia vita, che è migliorata rispetto agli ultimi anni. Sono sempre stata abituata a lavorare tanto, facendo sacrifici enormi. Ora mi sono rimessa in gioco, cercando con tutte le mie forze di imparare un nuovo impiego. Cosa mi manca dell’ospedale? Sicuramente i colleghi, l’ambiente, l’interazione, anche con i pazienti. Ma sono convinta di aver fatto la scelta giusta. Con la nuova sanità è sempre più complicato essere un buon infermiere: l’organizzazione spesso manca. Serve una gestione diversa anche delle persone che nella sanità ci lavorano ogni giorno».
Redazione Nurse Times
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