Lo stress è un’esperienza umana universale.
A provocarlo possono essere avvenimenti spiacevoli: un licenziamento, una malattia in famiglia, un insuccesso. Ma anche quelle piacevoli (una promozione sul lavoro o l’acquisto di una nuova casa) possono essere stressanti.
Tutti questi avvenimenti richiedono un qualche tipo di adattamento o aggiustamento che talvolta risulta facile; altre volte è più impegnativo.
Le richieste ambienti, o fattori di stress, possono avere natura fisica (un intervento chirurgico) o psicologica (un divorzio). Possono essere intrinseche a una situazione (un colloquio di lavoro) o soggettive (mangiare in pubblico per chi soffre di emetofobia); possono essere universali (un terremoto) o peculiari di un individuo (l’esperienza di un ostaggio detenuto da sequestratori).
Alcuni fattori di stress hanno natura fisica: mancanza di sonno, fame, rumore. Altri sono psicologici: eventi traumatici, difficoltà, conflitti.
Già negli anni Venti del Novecento furono condotte ricerche su come esseri umani e animali reagiscano alle minacce esterne. Esse portarono alla luce che il sistema nervoso autonomo in condizioni di stress accelera la respirazione e la frequenza cardiaca, restringe i vasi sanguigni; dilata la pupilla e aumenta la sudorazione.
Negli anni Cinquanta, invece, fu riconosciuta e descritta una modalità generale di risposta allo stress (la cosiddetta “sindrome di adattamento generale”, teorizzata da Seyle nel 1956) comune a tutti gli uomini; indipendentemente dalla causa specifica di stress, che può aiutare l’organismo a fronteggiare l’evento stressante secondo tre stadi.
Nel primo stadio l’organismo manifesta una reazione di allarme che si accompagna ai cambiamenti fisici già riportati.
Nel secondo stadio le persone si riprendono dalla reazione di allarme e cercano di affrontare la situazione di stress. In questo stadio, le reazioni dell’organismo sembrano essere neutralizzate, ma si tratta di un’apparenza ingannevole: nello sforzo di resistere allo stress si consumano risorse emotive e fisiche.
Se la situazione di stress prosegue, la persona entra nel terzo stadio chiamato “esaurimento”; il quale è possibile che non si riesca più a resistere ai fattori di stress e che le risorse diminuiscano rapidamente. Se il fattore di stress continua inalterato nella sua azione, le risorse dell’organismo diventano pericolosamente basse e possono risultarne danni ai tessuti, disturbi,malattie.
Benché l’esposizione a situazioni di stress gravi o durevoli causino spesso malattie o disturbi a lungo termine; non si deve generalizzare: non tutti gli stress sono uguali. E comunque, l’uomo ha una risorsa straordinaria: l’adattamento.
La capacità di adattarsi all’ambiente è una chiave del successo e della sopravvivenza dell’intera specie umana. Ci ha permesso di prosperare in un’ampia varietà di climi, difenderci e rinascere dagli orrori della guerra e dai disastri naturali.
A livello personale, l’adattamento aiuta a superare i dolori di un intervento chirurgico, il trauma di un lutto o il sovraffollamento delle città.
Fatte queste premesse, è però possibile che un operatore sanitario che ha sempre svolto il suo lavoro con impegno e dedizione all’improvviso si senta incapace di continuare a farlo? Quali sono i fattori che possono predisporre il professionista della salute all’insorgenza del fenomeno conosciuto come burnout?
Il Burn-out
Pur essendo un concetto relativamente recente in psicologia, ha avuto un’ampia diffusione: sembra che il termine derivi dal gergo dell’atletica e di altri sport e che fosse utilizzato negli anni Trenta per designare quella situazione tipica dell’atleta che, dopo alcuni successi, si esaurisce e non è più in grado di dare niente dal punto di vista agonistico.
L’analogia con il mondo della sanità è palese: l’operatore, dopo un periodo di intenso lavoro, svolto donando tutto se stesso, si “brucia” e non ha più nulla da offrire a livello né psicologico né lavorativo.
L’operatore, infatti, dapprima attraversa una fase in cui avverte uno squilibrio fra richieste proveniente dall’ambiente e risorse personali (fase dello stress lavorativo) durante la quale continua a svolgere il proprio impiego, seppur con estrema fatica.
Successivamente inizia a sperimentare tensione emotiva, ansia, irritabilità oppure noia, disinteresse, apatia (fase dell’esaurimento).
La tappa finale di questo processo è il disinvestimento emozionale del proprio lavoro: si assiste a una caduta della spinta motivazionale, con relativa perdita di entusiasmo, interesse e senso di responsabilità (fase della conclusione difensiva).
Il burnout rappresenta, per molti aspetti, una strategia difensiva che si rivela, però, altamente disfunzionale: danneggia in prima persona sia chi assiste, nei suoi vissuti più profondi; sia la qualità del suo operato verso pazienti e familiari.
Come diceva anche Cesare Pavese in una sua poesia: “Lavorare stanca.”
Jessica Tommasi
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Redazione Nurse Times
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