Somministrato a pazienti sui quali nemmeno la Car-T si rivela efficace, l’anticorpo monoclonale mosunetuzumab porta alla remissione completa della malattia in un discreto numero di casi.
Si tratta di una terapia ancora in fase sperimentale e la sua efficacia è stata provata in studi che, per adesso, mirano a capire quale sia la giusta dose di farmaco da dare ai pazienti, ma i risultati sono così incoraggianti da essere presentati in sessione plenaria al recente congresso della Società americana di Ematologia (Ash) svoltosi a Orlando (Florida).
Parliamo di un nuovo anticorpo monoclonale, mosunetuzumab, somministrato a pazienti con linfoma non-Hodgkin resistente, che cioè non risponde a nessuna delle terapie disponibili o che non lo fa più sebbene sia stato trattato con diversi farmaci, compresa la terapia Car-T. Lo studio multicentrico internazionale presentato in Florida mostra che nel 22% di questi pazienti così difficili mosunetuzumab ha portato alla remissione completa della malattia.
I linfomi non-Hodgkin sono tumori del sistema linfatico e circa l’85% delle forme interessa le cellule B, come per esempio il linfoma diffuso a grandi cellule B o il linfoma follicolare. La maggior parte dei pazienti risponde bene alle chemioterapie disponibili, ma chi non ha risultati duraturi tende a non reagire bene neanche alle terapie successive. Recentemente, con l’introduzione delle terapie a base di linfociti ingegnerizzati (Car-T) si è riusciti a indurre una risposta nel 40% di alcuni di questi pazienti (Car-T è approvata per il linfoma diffuso a grandi cellule B ma non per il linfoma follicolare).
“C’è quindi ancora molto bisogno di trattamenti per i casi di linfoma refrattario o che recidiva, anche perché la maggior parte dei pazienti è in condizioni di salute troppo precarie per essere sottoposto a Car-T – ha spiegato Stephen J. Schuster, direttore del Lymphoma Program dell’Abramson Cancer Center all’Università della Pennsylvania e autore principale dello studio –. Uno dei benefici di questo nuovo farmaco è che è disponibile per tutti, non deve cioè essere prodotto per ogni singolo paziente”.
Mosunetuzumab è un anticorpo monoclonale disegnato per legarsi a due recettori specifici delle cellule tumorali: CD19, come già fanno i linfociti T “armati” nella terapia Car-T, e CD20. A oggi oltre 270 pazienti hanno ricevuto il farmaco (sotto forma di infusioni che durano diversi mesi) in sette Paesi in tutto il mondo, di cui 193 sono risultati valutabili. Ebbene, i risultati mostrano che nei malati con malattia aggressiva, pari al 65% del campione, c’è stata una riduzione della patologia nel 37% dei casi e una remissione completa nel 19%; nei pazienti con malattia più indolente, invece, la riduzione si è verificata nel 63% dei casi e la remissione completa nel 43%.
Non solo. La remissione dura nel tempo, dopo 6 mesi l’83% dei pazienti indolenti che l’avevano raggiunta e il 71% di quelli con malattia aggressiva è ancora libero da malattia. E ancora, in alcuni dei pazienti precedentemente trattati con Car-T, i test molecolari hanno mostrato che le cellule ingegnerizzate infuse nel loro organismo sono aumentate in seguito alla somministrazione di mosunetuzumab.
“Questo significa che non solo mosunetuzumab è capace di uccidere le cellule tumorali ma che riesce anche a rivitalizzare le cellule Car-T e aumentare l’efficacia del trattamento precedente”, ha sottolineato Schuster. Rimane da capire quando nel corso del trattamento sia opportuno inserire anche questa nuova molecola e soprattutto se non si aumenta troppo in questo modo il rischio di effetti collaterali tipici delle terapie cellulari, come la sindrome da rilascio delle citochine. In ogni caso, concludono gli autori, si tratta di risultati preliminari che vanno ulteriormente confermati da studi di fase più avanzata.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Repubblica
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