Le infezioni ospedaliere (I.O.) sono per definizione un importante problema di sanità pubblica, non solo per le gravi ripercussioni sull’utente/paziente e la comunità sociale, che vede impiegare risorse aggiuntive per la salvaguardia, cura e ripristino dello stato di salute, ma anche e soprattutto per quanto attiene il controllo di qualità delle prestazioni che erogano i professionisti sanitari [1]
La prevenzione ed il controllo delle infezioni ospedaliere e correlate all’assistenza sanitaria sono un obiettivo prioritario di sanità pubblica e di miglioramento della qualità delle prestazioni di ricovero e cura [2]
Le infezioni correlate all’assistenza possono essere prevenute adottando misure dimostrate efficaci a ridurre il rischio di trasmissione di microrganismi potenzialmente patogeni nel corso dell’assistenza sanitaria. [3]
In Italia, secondo fonti del Ministero della salute, il trend epidemiologico delle ICA (Infezioni Correlate all’Assistenza) osservato è attribuibile a diversi fattori:
- un aumento della proporzione di pazienti immunocompromessi o comunque fragili,
- l’accentuata complessità assistenziale,
- l’aumento delle infezioni sostenute da microrganismi resistenti agli antibiotici, per effetto della pressione antibiotica e della trasmissione di microrganismi in ambito assistenziale,
- gli spostamenti frequenti dei pazienti nella rete dei servizi.
Non tutte le ICA sono prevenibili, perché in alcuni casi l’infezione è solo temporalmente associata all’episodio assistenziale, senza essere imputabile ad alcun fattore modificabile: i microrganismi fanno parte della flora endogena del paziente e l’insorgenza dell’infezione è attribuibile alle particolari condizioni cliniche dell’ospite. Studi recenti hanno però dimostrato come la quota prevenibile sia molto più ampia di quanto creduto fino a poco tempo fa; alcuni autori hanno addirittura ipotizzato la necessità di considerare ogni singola infezione come un evento avverso non più tollerabile e di mettere in atto misure per la prevenzione di tutte le infezioni (la cosiddetta “zero tolerance”). [4]
In Gran Bretagna è stata fatta simulazione al computer sulla diffusione delle infezioni ospedaliere dal quale è scientificamente emerso che le camere singole sono più sicure di quelle ove soggiornano più utenti, nella fattispecie 4 letti. Il rischio che i germi si propaghino in stanze con almeno 4 letti è più alto e stimato nella misura del 20%. A sviluppare il modello matematico alla base della simulazione è stata l’Università Johannes Kepler di Linz in Gran Bretagna. Gli studiosi grazie ai notevoli progressi della simulazione al computer, hanno modellato e controllato il flusso di aria in funzione dello spostamento di medici ed infermieri.[5]
Il nostro Codice deontologico d’altronde confida in noi responsabilità nell’allocazione dei pazienti da ospedalizzare, e tanto all’Articolo 2, dal quale si evince che “L’assistenza infermieristica …omissis… gestionale, relazionale ed educativa” , quanto all’articolo 10 “L’infermiere contribuisce a rendere eque le scelte allocative, anche attraverso l’uso ottimale delle risorse disponibili” [6]
In conclusione le ICA hanno una notevole ricaduta non solo sul piano della salute ma anche economico per la sanità sia in termini di salute che economici, sia per il paziente che per la struttura. Da qui la necessità di adottare pratiche assistenziali sicure, in grado di prevenire o controllare la trasmissione di infezioni sia in ospedale che in tutte le strutture sanitarie non ospedaliere. Occorre cioè pianificare e attuare programmi di controllo a diversi livelli (nazionale, regionale, locale), per garantire la messa in opera di quelle misure che si sono dimostrate efficaci nel ridurre al minimo il rischio di complicanze infettive. [7]
In Europa 1 paziente su 20 ospedalizzato acquisisce un’infezione, il che vuol dire 4,1 milioni di infezioni correlate all’assistenza, con 37 mila decessi e un costo di oltre sei miliardi di euro l’anno. In Italia si stima che le infezioni correlate all’assistenza siano circa 600-700mila l’anno con una prevalenza più alta rispetto a molti altri Paesi europei (6.3% in acuto e 6.1 nelle RSA) (dati del centro ECDC 2011-12, ISS, Assobiomedica, 3M).
CALABRESE Michele
Sitografia:
[2]www.sanita.regione.lombardia.it
[3] assr.regione.emilia-romagna.it
[6] www.ipasvi.it
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