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Le facce di chi lavora in ospedale sono sempre le stesse: tristezza e sofferenza diventano una seconda casa

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Condividiamo con i lettori di Nurse Times le parole di Michela Rauseo, medico 34enne originario di Milano ed iscritto all’Ordine dei Medici di Foggia.

La vita di chi lavora in ospedale è scandita dagli armadietti, che sembra di essere in campeggio: spazzolino, dentifricio e beauty-case.
È scandita dalle divise, eterni pigiami che diventano un tutt’uno con la pelle, a furia di indossarli: cambi colore per la monotonia, li personalizzi, ma sanno di te e del tempo che li indossi.


Le facce di chi lavora in ospedale sono sempre le stesse, un po’ perché ci si conosce tutti, un po’ perché chi passa la maggior parte di tempo qui dentro, fa di questo posto (il più triste al mondo, c’è gente che soffre), la sua seconda casa.
E quindi ti incontri al badge e subito “monti o smonti?”, “arrivi o vai?”…e vi garantisco che sui volti si legge sempre un po’ di amarezza, per chi viene e lascia a casa cose e per chi va e si porta dietro cose.


La vita di chi lavora in ospedale è anche tanto gossip, tanti cliché, tanti luoghi comuni: “chissà che combinate li dentro”, come se ci avessero posizionato un casting porno e tra un giro visita e una consulenza ci diversissimo ad accoppiarci, per dare un senso alla giornata che trascorre lenta.


Quello che noi vediamo ai più è per fortuna invisibile, quello che noi condividiamo ci porta a provare sensazioni di estrema collaborazione e sintonia o totale ripudio e disprezzo.


Viviamo sotto riflettori che non si spengono mai, perché quando siamo qui dentro sono sempre situazioni spiacevoli (lavoro in rianimazione, ndr) e quando sei fuori hai gli occhi puntati addosso dei tuoi cari: “adesso ce l’avrai un po’ di tempo per me?”, “quando fai la prossima notte?”, “mangiamo insieme domani se non sei stanca”.


Vivi la sensazione eterna di peccare, di mancare, di dover recuperare. Un eterno senso di colpa, come a non essere “buona” una volta fuori di qui. “Faccio tardi, per stasera passo”, “ci sentiamo quando mi riprendo dal coma”, “è arrivata un’urgenza all’ultimo minuto, do una mano alla collega”.

E chi ti sta vicino comprende, comprende sempre. E un po’ subisce. E tu vivi pensando che vorresti giornate più lunghe, vivi aspettando il weekend libero per poter dare le attenzioni che chi ami avanza, vivi sapendo che dovrai giustificare assenze, momenti bui, stanchezza fisica. A volte arrivano soddisfazioni che ti danno tanta carica, i colleghi sono affiatati, il gruppo è giovane, stimolante.

A lavoro dai tutta te stessa, ti impegni, è quello per cui hai studiato e sacrificato tante parti di te (beata gioventù). Ormai in tutti i reparti si trovano “questionari di gradimento”, perché è giusto anche essere giudicati per come ci poniamo con la gente, oltre che per come proviamo a sollevare dal dolore e curare le malattie.


Perciò, perdonateci le assenze, perdonateci i ritardi, perdonateci gli errori.


A nessuno piace restare a lavoro più del dovuto, a nessuno piace trascorrere le notti o le feste fuori casa, a nessuno piace sembrare distanti o perennemente stressati, distratti. Ci ripromettiamo sempre di recuperare, e se falliamo nel farlo, ci pesa ogni giorno un po’ di più.

Proviamo a farvi sentire al sicuro, dateci una mano quando serve a noi, a casa, spogli di tutto, a rassicurarci. Fateci capire che se noi siamo gli eroi, è anche grazie a voi.

Michela Rauseo

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