Parlando della condizione della Professione Infermieristica, si fa più volte l’errore di non considerare abbastanza il punto di vista di chi rappresenta il nostro futuro: gli studenti.
Ho da sempre, verso di loro, un’attenzione particolare, in quanto credo che, formati in maniera intellettualmente adeguata, possano garantirci un futuro migliore sotto ogni punto di vista: sia come professionisti che come fruitori del sistema assistenziale.
Stavolta raccogliamo il pensiero critico di Giorgio (nome di fantasia), uno studente del 3 anno di Infermieristica prossimo alla laurea. È con rammarico che leggiamo, nella sua analisi, una delusione che risulta quantomeno ingiusta e precoce.
La domanda è: quando si deciderà di andare verso una riforma seria della formazione universitaria dell’Infermiere che, tutt’oggi, risulta ancora invischiata di retaggi del passato?
Quando verranno aggiornati i contenuti degli insegnamenti conferendogli la giusta connotazione scientifica propria di un professionista?
Per quanto ancora dovremmo assistere a questa assurdità che ci tiene incatenati ad una immagine stantia dell’Infermiere che non ci appartiene più?
Di seguito la testimonianza dello studente.
Sono Giorgio, un ragazzo di Napoli, che si è trasferito a Roma per studiare infermieristica. Frequento il terzo anno, seguo molto le notizie infermieristiche, cercando sempre di essere aggiornato sulle ultime novità, senza tralasciare niente.
L’infermieristica per me non è mai stata un ripiego, ho imparato con cautela a conoscere la storia di questa professione e soprattutto di cercare di vederne il futuro. Ad oggi si parla tanto di demansionamento, se la nostra professione categorizzata come intellettuale, lo sia solo sulla carta, o se veramente dovremmo sentirci dei professionisti intellettuali.
Io purtroppo ad oggi, professionista intellettuale, mi sento solo per mia coscienza e consapevolezza delle doti e delle conoscenze dell’infermiere moderno, ma tutto questo è riscontrato nel mondo lavorativo?
La nostra università, come tutti ben sapranno, prevede un tirocinio clinico già dal primo anno, ma purtroppo devo dire che tutto quello che avevamo studiato in teoria nelle aule universitarie, nel mondo lavorativo non esiste.
Nei primi giorni, e nei primi corsi da seguire, mi insegnavano come rifare un letto, come fare l’angolo alle lenzuola, cosa è un pappagallo, cosa è una padella, cosa è una comoda. Come se l’angolo alle lenzuola, o portare il pappagallo con il sorriso, facciano di me un grande infermiere.
Allora decisi di andare contro ogni credenza culturale dell’infermieristica da scuola generica, ma purtroppo non ho mai avuto un riscontro, solo ora ho capito che anche l’università crea una consuetudine, usando un vocabolo giuridico, incarcerando le menti dei ragazzi, demansionandoli già dal tirocinio.
Come sfruttare gli studenti prima e i professionisti, poi. La nostra deontologia, il nostro giuramento, il patto infermiere-cittadino, prevedono che al primo posto, nei nostri pensieri ci sia il paziente. Allora io penso che, per fare il bene del paziente, l’infermiere debba discostarsi dall’assetto alberghiero e iniziare a pianificare l’assistenza avvalendosi delle figure di supporto.
Nel mio tirocinio non ho mai parlato con un o.s.s., mai pianificato un’assistenza con altri colleghi e personale di supporto. Mi spiegate voi come si sta facendo il bene del paziente?
A breve termine, forse, per soddisfare un bisogno come quello di urinare, il pappagallo è la strada giusta, ma a lungo termine? Siamo improntati su un’assistenza riabilitativa oppure soddisfiamo solo i desideri del cliente seguendo la logica de “il cliente ha sempre ragione?!”
Sempre accostato al tema del pianificare l’assistenza e fare il bene del paziente/cittadino, l’università ci spiega davvero cosa è il territorio?
Ha mai spiegato cosa è un ambulatorio infermieristico? Ve lo dico io, no! Siamo improntati a cercare lavoro all’ospedale, nei corridoi dell’UO, perché cosi siamo stati formati, perché pensiamo che la libera professione sia la massima insicurezza, come uno stipendio che non arriverà mai, quando io invece, sul territorio, ci trovo autonomia di gestione e di cura e le maggiori soddisfazioni.
L’italia conta “più di 25 milioni italiani affetti da una malattia cronica e 7,6 milioni in modo grave” (1ª Conferenza nazionale sull’accesso alle cure nelle malattie croniche Roma, La cronicità in Italia, 2010) e molti pazienti hanno difficoltà di accesso ai servizi. La soluzione a tutto questo è appunto il territorio, la libera professione, perché tutto questo all’università non viene insegnato, perché il libero professionista non è ancora culturalmente e professionalmente ideato per assolvere ai bisogni dei cittadini oggi? Perché studiamo ancora con un ordinamento didattico creato il 2006, quando la sanità in dieci anni è cambiata in maniera esponenziale?
Per non parlare poi dei modelli organizzativi, in teoria esistono vari modelli organizzativi (primary nursing, modular nursing, case management), studiamo i vantaggi e gli svantaggi, svantaggi che riscontrano sempre il costo troppo elevato e un personale raddoppiato. Ma in Italia, quasi dappertutto si usa il Functional Nursing, per funzioni, per compiti e se mi lasciate passare la polemica lo descriverei meglio dicendo PER MANSIONI.
Questo modello, come ben saprete, individua in ogni singolo professionista una mansione, per capirci, tu fai quello e io faccio questo. Ogni mattina, ogni turno, è sempre la stessa attività, sempre la stessa tecnica, che diventa rovinosamente routinaria, creando così un movimento meccanico del quale non si conoscono più i motivi, perché lo si fa. Non è più un’azione pensata, ragionata, con un processo logico-sistemico, ma appunto, diventa una misera esecuzione, che sicuramente ci separa dal concetto di professionista intellettuale, avvicinandoci di più all’esecutore.
Concludo dicendo che nelle università il pensiero è positivo, c’è voglia di cambiare, c’è voglia di ottenere una maledetta cartella infermieristica che non viene usata in tutta Italia.
Noi professionisti del domani, cercheremo con tutte le forze, affiancandoci a chi, già adesso lotta per la nostra magnifica professione, di cambiare le cose, e di ottenere quel riconoscimento sociale, contrattuale, culturale, che tanto ci meritiamo. Non lo faremo soltanto perché vogliamo che la nostra professione sia al pari di tutti i professionisti intellettuali, ma lo faremo anche perché la nostra deontologia ci impone il bene del cittadino, e perché continuando così, ad oggi, il suo bene non lo facciamo.
Anna Di Martino
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