Gentile Direttore di NurseTimes,
mi chiamo Chloé e sono un’infermiera. Mi sono laureata nel 2016 a Roma e visto il tanto lavoro ma le poche offerte lavorative di quel periodo ho deciso di trasferirmi con il mio compagno in Irlanda.
Ho subito ottenuto un contratto a tempo indeterminato dopo soli 5 (CINQUE) giorni che avevo mandato il curriculum vitae.
Lavoro li per 3 anni, prima in un reparto di pazienti paganti (pagavano in toto le proprie cure), poi in oncoematologia, ricevendo tutti i training richiesti dal Paese.
Decido di tornare a casa, a Roma, dove sognavo un giorno di poter esercitare il mio lavoro.
Siamo dunque tornati, consci di ciò che avevamo lasciato: partita iva, co.co.co, interinale. Ho fatto tutto questo. Ho lavorato nella Pubblica Amministrazione a partita iva a 13 euro l’ora lordi, ho lavorato in cooperativa per l’ospedale pediatrico più importante d’Europa per 9 euro lordi l’ora.
Poi un contratto a tempo determinato, piovuto dal cielo per un errore burocratico…
Arriva la Pandemia e scopro di essere in dolce attesa.
A settembre finisce il progetto a cui ero assegnata che viene però rinnovato, ma il mio contratto no!
Io a casa, incinta, lasciata a casa da tutti e tutto perchè “non produttiva”.
A dicembre 2020 mi chiamano per un contratto Tempo Determinato presso l’INMI “Spallanzani” di Roma, combatto affinché il mio stato di gravidanza venga riconosciuto.
Ci metto 2 mesi, nel frattempo arrivano molti contratti di lavoro a tempo indeterminato presso varie strutture; al nord i concorsi sono più frequenti.
Mi contattano da una prestigiosa clinica di Roma (famosa per i parti), che però non vengono più effettuati per il Covid: mi propongono un anno di contratto.
Rifiuto: ho un curricula abbastanza buono, parlo 4 lingue fluentemente, un bambino di 2 mesi a casa.
Faccio il Master in Infermieristica di Famiglia e Comunità, il primo nel Lazio con zero prospettive lavorative: i 9600 infermieri di famiglia annunciati, non si sa dove sono finiti.
Comunico le mie condizioni: determinato o meglio, indeterminato, con una turnazione sacrificante con mattina e pomeriggio accorpato (07:00/19:00) notte, smonto con doppio riposo, per poter stare con il bambino il più possibile.
In cambio non avrei avanzato pretese sui turni notturni a favore del bimbo benché fosse un mio diritto.
Mi viene risposto dal responsabile delle risorse umane che avendo un bambino piccolo, se volevo lavorare nel Lazio, dovevo omettere questo “piccolo particolare”; che la politica delle strutture di Roma era di non assumere personale femminile con bambini al di sotto di 3 anni, anche rinunciando al diritto di allattamento e tutto ciò che comporta la legge 151.
Lo Stato ha investito su di me e i miei studi, sono andata via e sono tornata per amore della mia città, per lavorare.
Ma non mi vengono riconosciuti i miei diritti, anzi, mi si da la colpa perchè a 30 anni ho deciso di fare un bambino, e mi si consiglia di tenerlo nascosto.
Tutto questo succede nella civile ITALIA.
Trovo tutto ciò allucinante. Voi no?
Chloe Vanegas
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