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Intervista a Ivan Cavicchi: il demansionamento e la decapitalizzazione del lavoro

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Il sociologo Ivan Cavicchi entra nel merito durante la tavola rotonda su “la formazione dei professionisti della salute: i punti di forza, i punti di debolezza e i cambiamenti attesi” confermando che per non far pagare la crisi ai cittadini, medici e infermieri ne risponderanno in pieno, in quanto le condizioni di lavoro sono privative per il blocco del tourn-over, il blocco dei contratti, che comportano il “demansionamento” e la decapitalizzazione del personale che ci sta impoverendo.

Cavicchi, inoltre, afferma che non c’è una visione del lavoro come valore e fa emergere una “questione infermieristica” ed una “questione medica” puntando su possibilità coevolutive considerando che grazie alla legge 42 del 1999 si supera, finalmente, una potestà sulla professione. Quindi, bisogna dare dignità alla professione considerando che anche i medici vivono un momento di crisi.

Vanno riportate le responsabilità in esiti e fare accordi dove le altre professioni cooperano, adottando standard di qualità per legittimare le specializzazioni, tutto ciò con il dovuto riconoscimento economico e professionale. La professionalità va misurata, perché l’autore accetta di farsi misurare sugli esiti per evitare di mettere in discussione le competenze. Però è anche vero che il disagio professionale è molto forte, anche per i rapporti fra colleghi, considerando, inoltre, che c’è la grave situazione del precariato con il 60% dei laureati disoccupati.

Si ha l’impressione che ci sia una questione che difficilmente troverà una soluzione, che emerge da queste giornate dedicate all’infermieristica, questi due mondi “Medico” e “Infermiere” che si guardano, lavorano insieme ma non riescono a fondersi. Perché accade?

Il contesto nel quale queste due figure si incontrano e si scontrano è un contesto molto difficile. È un contesto di definanziamento del sistema di decapitalizzazione ed è un contesto che restringe le condizioni di lavoro, lavoriamo tutti male quando ci sono i minimi in discussione. Poi ci sono delle eredità storiche che è difficile superare, perché quando parliamo di medico e di infermiere l’infermiere è la figura più riformata negli ultimi trent’anni, ereditiamo delle figure dalla storia da una certa idea di medicina da una certa idea di sanità che sono idee storiche in fortissima discussione, per cui chi non si adegua rischia di essere regressivo, di guardarsi indietro. Bisogna adeguarsi a cosa? Al nuovo bisogno che c’è, per esempio c’è un grande bisogno di assistenza, ad un nuovo cittadino, ad una nuova società e purtroppo ad un grande pesantissimo limite economico. La partita da giocare è una partita molto delicata perché io non sono d’accordo con coloro che ritengono che le professioni si devono adattare al limite economico, questa sarebbe la fine delle professioni. Il limite economico possiamo trasformarlo in una possibilità, cioè le professioni si ripensano per produrre più utilità, questa non è una cosa facile anzi è molto difficile, tuttavia io non dispero, credo fermamente nella mia idea di coevoluzione.

Il problema è così comune, il contesto è negativo per entrambi che sono costretti a coevolvere. Anche al conflitto che è derivato dalle competenze non bisogna dare una visione negativa, i conflitti a volte servono, a volte fanno capire, a volte avvicinano. Però dobbiamo fare uno sforzo quasi di corresponsabilità, cioè capire che è più conveniente fare una battaglia comune che non dividerci. Mi viene in mente la parola sincretismo che viene dai cittadini cretesi che storicamente litigavano continuamente, ma appena avevano un nemico alle porte si riunivano sincreticamente.

Lei afferma in uno dei suoi libri che in sanità c’è stata una mancata rivoluzione, di chi è la responsabilità?
Lo chiamo il riformista che non c’è, c’è una responsabilità politica molto forte. Quando abbiamo fatto la riforma nel ‘78 che era una grande idea di nuova tutela, tutta imperniata sul diritto alla salute, appena fatta questa riforma pochi anni dopo l’abbiamo messa da parte, perché abbiamo preso una scorciatoia, abbiamo pensato che fosse possibile governare il cambiamento e il mutamento con la gestione.

Adesso sappiamo che è stato uno sbaglio, la gestione è nei guai fino al collo abbiamo problemi di governabilità, e quel debito con il cambiamento che abbiamo contratto in quegli anni è ancora da pagare, e il bello è che gli operatori, a partire dagli infermieri, sono pronti a pagare il debito, a fare la riforma, perché non è possibile andare avanti con la manutenzione del sistema con qualche tagliando qua e la. Oggi la cosa è profondamente cambiata proprio nei fondamenti. Per esempio, il fatto che abbiamo limiti economici ci accompagneranno per tutta la vita, saranno sempre più forti, e allora per non subirli dobbiamo trasformarli in possibilità, per trasformarli in possibilità dobbiamo cambiare, dobbiamo mettere in campo nuove idee di professione, di professionalità, di infermiere, di medico, di malato, di organizzazione.

C’è un paradosso, cresce la domanda di salute ma cresce la disoccupazione, dov’è il punto critico considerando che sono due richieste che non riescono ad incontrarsi? Paradossi ce ne sono tanti, il più grande in sanità è che bisogna risparmiare ma non diminuiamo le malattie. La cosa migliore per risparmiare in sanità è fare della buona salute e diminuire i malati. In Italia si spende pochissimo per fare prevenzione, si spende appena il 3,5%, questo è un grande paradosso.

L’altro paradosso è che non crediamo che il lavoro abbia una funzione virtuosa di produzione di valore, a sua volta, e non investiamo su questi valori. Invece dobbiamo entrare in un ottica nuova, quando produciamo salute in ospedale, in un servizio, nel territorio, noi contribuiamo ad aumentare la ricchezza del paese. Spesso si fa l’errore di ridurre il concetto di ricchezza al concetto di PIL che è solo la misura di ricchezza economica, ma la ricchezza di un paese dipende dall’ambiente di vita, dalla cultura, dalla giustizia e dalla salute. Si è mai visto un paese povero in buona salute? Non esiste! La malattia è connotativa di non ricchezza, quindi produrre ricchezza è la grande sfida, è questo il vero concetto di sostenibilità, non quello che si dice ad ogni convegno in sanità dove si confondono sostenibilità con compatibilità.

Credo che la sfida sia da cogliere in questo senso, però c’è un arretratezza mostruosa, noi abbiamo le leggi più avanzate del mondo, non c’è una legge in sanità che non parli di articolo 32 e che non parli di diritti fondamentali, però accanto a queste tonnellate normative abbiamo una grande contraddizione, in modo popolare “l’acqua è tanta e la papera non galleggia”.

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