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Inibitori di pompa protonica. Se presi a lungo possono essere pericolosi

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Gli inibitori di pompa protonica (PPI) sono tra i farmaci più prescritti in assoluto e  portano con sè numerosi effetti collaterali, ragion per cui dovrebbero essere prescritti al dosaggio minore e per il minor lasso di tempo possibile e non assunti all’infinito come spesso avviene.

Messaggio questo che dovrebbe arrivare a medici e pazienti dato che in Italia lansopraziolo, omeoprazolo e pantoprazolo sono largamente utilizzati.
Ad occuparsi degli effetti collaterali da PPI è stata una review su CMAJ (Canadiam Medical Association Journal). Molti pazienti, scrivono gli autori, come gli adulti in trattamento con FANS, cortisonici ed antiaggreganti richiedono un trattamento a lungo termine con PPI per ridurre il rischio di emorragie gastrointestinali ma talvolta continuano ad essere prescritti per sintomi banali e senza indicazioni basate su evidenze scientifiche.

In tutti i casi sarebbe opportuno che ci li assume per un motivo valido fosse rivalutato periodicamente dal proprio medico curante. Gli effetti collaterali possono comportare infezioni da clostridium difficile, fratture ed ipomagnesemia grave.
Una delle più discusse interazioni dei PPI è quella con il Clopidogrel. Uno studio su 13636 pazienti in trattamento con questo farmaco dopo un infarto del miocardio ha evidenziato un alto tasso di recidiva di infarto se vi è anche l’uso concomitante di omeoprazolo.

Questa associazione non veniva osservata con il pantoprazolo. Alla luce di questo allarme, è stata effettuata una revisione e metanalisi di 25 studi su 159.138 pazienti che confermava come l’uso concomitante di PPI e di clopidogrel si associava ad un aumento del rischio di eventi cardiovascolari maggiori (MACE) del 29% e ad un aumentato rischio di infarto del 31%, senza tuttavia un impatto sulla mortalità.

Ha portato ad un risultato opposto il COGENT (Clopidogrel with or without Omeoprazol in coronary artery disease), studio randomizzato in doppio cieco gruppo controllato vs placebo allo scopo di valutare l’associazione di aspirina, clopidogrel ed omeoprazolo in un’unica compressa per coloro che hanno indicazione alla doppia terapia antiaggregante allo scopo di ovviare al rischio di sanguinamento del tratto intestinale superiore (NNT200) senza mettere in evidenza l’associazione con un aumentato rischio di infarto.

Il dibattito insomma è ancora aperto, ma nel frattempo l’FDA consiglia di “evitare l’uso concomitante di esomeprazolo/omeprazolo e clopidogrel”.

Ad essere alterati dai PPI possono essere alterati i livelli i livelli terapeutici dei diversi farmaci in modo particolare dell’omeoprazolo, che possiede un’elevata affinità per il citocromo p4502c19 ed invece una moderata affinità per il p4503a4.
Ad essere a rischio è anche l’associazione tra PPI e terapie sostitutive per la tiroide, metotrexate, antimicotici ed antiretrovirali.
Altro effetto indesiderato è l’ipersecrezione acida da rimbalzo con conseguente dispepsia alla sospensione del farmaco dovute ai livelli elevati di gastrina e cromogranina A, ragione per cui si richiede lo scalaggio dei PPI in caso di trattamenti prolungati.

L’alterazione dle ph gastricoha effetti di riduzione sull’assorbimento del ferro non eme e quello della vitamina b12 e l’assorbimento del magnesio con il rischio di ipomagnesemia grave causa a sua volta di aritmie, convulsioni e tetania, sarebbe raccomandabile a questo scopo sarebbe raccomandabile che i pazienti cardiopatici fossero sottosposti periodicamente al controllo della magnesemia.
L’impego prolungato di PPI si associa inoltre ad un elevato rischio di fratture sia in soggetti maschili che femminile a causa della ridotta bionispodibilità di calcio indotta dai PPI.
Il maggior riassorbimento del’osso viene indotto dal PTH a sua volta stimolato da ipergastrinemia ed ipomagnesemia lieve.
Altre ipotesi mettono in luce che i PPI inibiscono le pompe protoniche degli osteoblasti con il ocnseguente aumento dell’attività degli osteoclasti alterando quindi il metabolismo osseo.

Anche le nefriti interstiziali acute potrebbero avere legami con l’abuso di PPI.

Uno studio osservazionale tedesco, ha dimostrato che l’uso di PPI si associa ad un’aumentata incidenza di tutte le forme di demenza  (+ 38%) e soprattutto di Alzheimer (+ 44%). Varie le ipotesi messe in campo per spiegare questa associazione. Il lansoprazolo aumenterebbe la produzione di proteina beta amiloide, implicata nella patogenesi dell’Alzheimer. Il gastrin releasing peptide, che risulta elevato negli utilizzatori di PPI, è implicato nella modulazione delle funzioni cerebrali correlate allo stress e all’ansia.

Passando a quelle che sono le complicanze infettive gli studi dimostrano che l’uso di PPI si associa ad un aumento del 69% del rischio di infezioni da clostridium difficile e nonostante ciò sono molto pochi i pazienti ai quali si sospende il trattamento con i PPI durante il corso dell’infezione e la situazione diviene più critica se pensiamo che il 50% delle prescrizioni di PPI sono inappropriate.

Altre infezioni ai quali i PPI sono associati sono quelle intestinali da Campylobacter e Salmonella

I pazienti con cirrosi e ascite possono presentare la cosiddetta peritonite batterica spontanea che rappresenta un’importante causa di morbilità e mortalità. Questa condizione sarebbe dovuta ad una traslocazione batterica e i soggetti in trattamento con PPI sarebbero ad aumentato rischio.  Due metanalisi suggeriscono infatti che i soggetti in trattamento con PPI presentano un rischio di 2-3 volte maggiore di sviluppare una peritonite batterica spontanea. Alla luce di queste evidenze, le linee guida dell’ American Association for the Study of Liver Diseases suggeriscono di utilizzare con estrema cautela i PPI nei pazienti con cirrosi, facendo grande attenzione alla durata della terapia in quelli con patologia ulcerosa o utilizzando i PPI per un periodo di tempo molto contenuto dopo un intervento di legatura delle varici esofagee.

Una metanalisi su 23 studi randomizzati e controllati e su 8 studi non randomizzati ha dimostrato che i PPI sarebbero associati anche ad un aumentato rischio (+27%) di polmonite; il rischio è più elevato (+34%) per le polmoniti acquisite in comunità, è maggiore entro i primi 7 giorni dall’inizio del trattamento con PPI, ma persiste fino a 180 giorni dall’avvio dello stesso. Va detto che questi studi non tengono conto della presenza o meno di reflusso gastroesofageo, una condizione che di per sé può associarsi sia all’impiego di PPI che alla comparsa di polmonite.

Insomma ce n’è abbastanza di che riflettere sull’opportunità di continuare a prescrivere  i PPI in maniera indiscriminata, spesso senza una corretta indicazione e a tempo indefinito. Gli autori della reviewsuggeriscono di prescrivere questi farmaci, preziosi se usati correttamente, al dosaggio più basso e per il periodo di tempo più breve possibile.
Fortemente raccomandata anche la rivalutazione periodica dei pazienti che li assumono cronicamente, per cogliere eventuali stati carenziali o effetti indesiderati da trattamento prolungato con PPI.

Mina Cucinotta

Fonte: quotidianosanita.it

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