Quello che può sembrare il titolo di un film, è purtroppo una triste realtà
Non passa giorno senza che ci si imbatta in un post su qualche social, una discussione, un articolo o altro in cui uno o più infermieri tirano fuori il meglio (e purtroppo spesso anche il peggio) di se.
I motivi sono i più disparati: le “mansioni”, il “giro letti”, l’“igiene del paziente”, le “competenze avanzate”, la “laurea” ecc…, ed anche le risposte (così come i toni utilizzati nelle discussioni) sono le più varie.
Una cosa però balza all’occhio del lettore che, a suo “rischio e pericolo”, decide di addentrarsi in una delle discussioni di cui sopra: l’eterogenicità dei pareri, delle opinioni e del “modus operandi” di tutti gli infermieri che esprimono la propria opinione.
Così, mentre ci si da battaglia, spesso per futili motivi, la professione continua a brancolare nel buio alla ricerca di una propria identità, con un dualismo tra l’infermiere laureato (a detta dei colleghi più anziani) che spesso pretende di saperne di più rispetto al suo collega o, più semplicemente, e il collega più giovane rifiuta di adeguarsi ad un modo di lavorare obsoleto adducendo motivazioni inconcepibili per chi (erroneamente) ha sempre inteso l’assistenza infermieristica come una “missione” piuttosto che una professione.
Serve a poco sottolineare che entrambi fanno parte della stessa categoria, così come serve a poco far notare che gli interessi dell’uno dovrebbero corrispondere agli interessi dell’altro, dato che una migliore condizione lavorativa ed economica, gioverebbe ad entrambi.
Questa “diversità” altro non è che l’espressione di una mancanza di identità professionale che nasce da lontano e che affonda le proprie radici con molta probabilità nella formazione di ogni singolo infermiere; basti pensare che, all’interno della stessa categoria, operano colleghi formatisi nelle scuole convitto (che con molta probabilità risentono della formazione parareligiosa impartitagli dalle suore, vecchie “detentrici” del sapere infermieristico), colleghi che hanno conseguito il titolo in seguito ad un corso regionale, infermieri in possesso del vecchio diploma universitario e, cosa ancora inconcepibile per molti, dottori in infermieristica, molti dei quali in possesso di laurea specialistica e master.
Quanto sopra descritto porta ovviamente ad una diversità di vedute oltre che di tipo “idealistico”, anche di tipo clinico/assistenziale, e tutto ciò fa si che emergano diversi problemi che ormai attanagliano la professione infermieristica, problemi dai nomi divenuti, ahimè, ormai troppo familiari agli infermieri italiani: demansionamento, precariato, sfruttamento ecc…
Dopo molti anni trascorsi dall’abolizione del mansionario, dal riconoscimento dell’infermieristica quale professione sanitaria, dall’istituzione della laurea in infermieristica, la situazione si è evoluta in maniera diversa rispetto a quanto auspicato, e ancora oggi siamo ben lungi dal vedere la nostra professione godere di quel rispetto e di quella dignità che merita.
In questo momento è inutile istituire una “caccia alle streghe” al fine di individuare eventuali colpevoli di questa situazione, bensì sarebbe auspicabile fermarsi un attimo e riflettere su quello che è il proprio atteggiamento verso la professione (e non la missione) che si esercita, magari mettendosi in gioco in prima persona cercando di contrastare il dilagare di situazioni spiacevoli.
Sarebbe necessario che ogni infermiere prenda coscienza del proprio status e di cosa sia diventata oggi la professione infermieristica, del proprio ruolo professionale ben diverso dalle altre figure di supporto (Oss, Ass, ecc.), che si presenti ai propri assistiti non più col proprio nome, bensì come “l’infermiere”; chiarendo fin da subito i differenti ruoli sin dal primo contatto nei luoghi di cura.
E’ importante educare i pazienti e cittadini spiegando loro come è cambiata la professione e, soprattutto, occorrerebbe cominciare a rifiutare tutte quelle proposte di lavoro (se di lavoro si può parlare) che mettono l’infermiere alla stessa stregua di una semplice badante; lavori pagati a pochi euro l’ora e che prevedono lo svolgimento di compiti non inerenti la professione infermieristica (es. cucinare per l’assistito o altre situazioni simili).
Per far si che qualcosa cominci davvero a cambiare, ogni infermiere, facendo riferimento al Codice Deontologico, dovrebbe denunciare presso le sedi opportune quelli che sono i casi di “compensazione” che di fatto confondono i cittadini che si trovano ad osservare professionisti infermieri che, poco prima hanno salvato la vita del proprio caro, all’occorrenza si trasformano in ausiliario, barelliere, Oss, tecnico, segretario, e tanto altro ancora.
Lamentarsi sui social network, accusandosi gli uni con gli atri o incolpando (come spesso accade) i Collegi Ipasvi non serve a nulla se non a creare ulteriore divisione all’interno di una categoria già fin troppo bistrattata; così come non serve scaricare la colpa di tante situazioni su altre figure emergenti all’interno del panorama sanitario.
La soluzione?
Semplice: ad esempio, al pari di altre categorie, cominciamo tutti a prendere parte alla vita dei nostri organi istituzionali di rappresentanza; facciamo sentire la nostra voce e le nostre proposte nelle sedi opportune anziché nascondersi dietro una tastiera.
Bisogna essere consapevoli di essere la comunità professionale più numerosa operante all’interno della sanità, riusciremmo (se solo fossimo uniti) sicuramente a far emergere quella dignità e rispetto che da troppo tempo ci vengono negati…in primis una formazione accademica che veda gli infermieri stessi partecipare come docenti nelle facoltà di Infermieristica, presenti negli organi di governo degli stessi atenei, essere parte attiva di quel processo di evoluzione formativa che non può più essere procrastinata.
Basta lamentarsi, e come recita il detto “l’unione fa la forza”, con 400mila (e più) infermieri che portano avanti la stessa battaglia, riusciremo ad ottenere ciò che ci spetta…compresi i giusti riconoscimenti contrattuali ed economici!
Carlo Leardi
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