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Infermiere avvelenato perché “infame”: scandalo all’Oncologico di Bari

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Infermiere avvelenato perché "infame": scandalo all'Oncologico di Bari
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Ha dell’incredibile quanto sarebbe avvenuto nel reparto di Oncologia medica, lo stesso investito in estate dallo scandalo del primario Vito Lorusso. Furti di farmaci e dispositivi medici di proprietà dell’ospedale, ma anche di soldi ai pazienti malati di cancro. Il tutto condito da un clima di intimidazioni in stile quasi mafioso, di cui nel 2017 avrebbe fatto le spese un infermiere definito “infame” da un collega. Oggi l’uomo è disabile, pare in conseguenza di un tè contaminato che avrebbe bevuto proprio in quel reparto.

Intimidazioni in stile quasi mafioso, con minacce a genitori, compagni e bambini. Un infermiere, definito “infame” da un collega, avvelenato dopo aver bevuto un tè in reparto e da allora impossibilitato a lavorare per una grave disabilità. Un altro infermiere, con precedenti per contrabbando e ricettazione, regolarmente in servizio, nonostante fosse ai domiciliari. E un reparto da cui i dipendenti avrebbero rubato farmaci e dispositivi medici, ma anche soldi direttamente ai pazienti, malati di cancro, che avrebbero dovuto curare e accudire.

Proprio da quest’ultimo episodio è nata, quasi per caso, l’indagine che ha svelato il “traffico” di materiale dai locali dell’Istituto tumori “Giovanni Paolo II” di Bari alle abitazioni di infermieri e operatori socio-sanitari “infedeli”, che usavano farmaci e dispositivi di proprietà dell’ospedale per visite private in nero. In sei – due ancora in servizio e ora sospesi, quattro in quiescenza – sono stati sottoposti a misura cautelare e non hanno risposto alle domande del gip in sede di interrogatorio di garanzia.

Il tutto avveniva nel reparto di Oncologia medica, retto fino al luglio scorso da Vito Lorusso, il primario arrestato perché chiedeva soldi ai pazienti per visite e ricoveri che sarebbero stati gratuiti. Decisiva per questa indagine è stata anche la collaborazione della direzione generale dell’istituto.

Ma partiamo dal furto di contanti. Nel 2020 un’infermiera, sospesa per aver rubato 250 euro dal borsellino di una paziente ricoverata (da allora non lavora più nella struttura ed è attualmente sotto processo), decide di raccontare agli inquirenti gli strani “movimenti” che avvenivano nell’infermeria e nel deposito del reparto. O meglio, racconta della reazione dei colleghi alle sue legittime perplessità.

Uno di questi, non indagato, all’ennesima domanda l’avrebbe minacciata così: “Hai rotto i c… Sappiamo dove abiti, chi è la tua compagna e che sei un’infame come tua cognata. Conosciamo tua madre, che lavora qui da tanti anni, e stai attenta a tua madre, che non ci vuole niente a farle del male”. Pochi giorni dopo, nella sua casetta delle lettere, la donna avrebbe trovato alcune foto, scattate da ignoti, della sua compagna al lavoro e con i suoi due nipotini. La sorella della compagna, come spiegano gli inquirenti, è una collaboratrice di giustizia.

Questo “clima intimidatorio”, scrive il pm Ignazio Abbadessa, trova riscontro anche in un altro episodio. Giugno 2019, alcuni infermieri trascorrono un momento di pausa chiacchierando. A un certo punto la conversazione vira su un infermiere ex caposala di cui tutti hanno perso le tracce. “Ma che fine ha fatto?”, chiede un’infermiera. “La fine che fanno tutti gli infami”, risponde lo stesso collega di prima.

Salta fuori che nel novembre 2017 l’infermiere avrebbe bevuto in reparto una “bevanda calda preconfezionata in involucro monodose di plastica”, per poi cominciare ad accusare dolori lancinanti. Ricoverato al centro antiveleni dell’ospedale Riuniti di Foggia, riportò insufficienza renale acuta, necrosi tubulare acuta, insufficienza respiratoria acuta, emorragia cerebrale, emiparesi facio-brachio-crurale destra e afasia. “Ora vive con la sorella – spiega la denunciante –. Ha bisogno di assistenza continuativa a causa di una grave disabilità. Non gradisce visite e non può parlare al telefono”. Le circostanze dell’avvelenamento non sono mai state accertate.

C’è poi il caso di Onofrio Costanzo, uno dei sei sottoposti a misura cautelare (nel suo caso l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), ma ai domiciliari dal 2020, con permesso per lavorare. Il reato a lui contestato è la ricettazione di un cellulare rubato. Dalla struttura ammettono che nessuno, in primis il diretto interessato, ha mai informato l’Irccs del procedimento e della misura a suo carico. Ha lavorato potendolo fare, ma probabilmente sarebbe stato sospeso già tre anni fa, se i suoi dirigenti ne avessero conosciuto la storia.

Costanzo, “sottoposto più volte a controlli di polizia fiudiziaria, è stato trovato in compagnia di pregiudicati per reati contro il patrimonio” e, pur essendo l’unico in famiglia con uno stipendio (circa 18mila euro annui; la moglie è disoccupata), sarebbe proprietario di una moto Honda e, in passato, avrebbe posseduto tre auto. La moglie avrebbe due auto di proprietà. Nonostante i tanti controlli subiti, “l’illecito per Costanzo continua a costituire attrattiva”, scrive il pm.

C’è poi un altro episodio che riguarda Lorusso. Nel 2019, dopo l’apertura del procedimento contro l’infermiera per i 250 euro rubati, la convocò, chiedendole di “prendersi la colpa del furto”. E aggiungendo: “Se non fai storie, ti paghiamo l’avvocato. Tornerai a lavorare tranquillamente. Vuoi fare la caposala? Ti faccio fare la caposala”.

Racconta una fonte al Corriere del Mezzogiorno: “Oncologia medica è il reparto più duro in assoluto, ma da lì nessuno ha mai chiesto di andare via”. Forse ora si comincia a capire perché.

Redazione Nurse Times

Fonte: Corriere del Mezzogiorno

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