Un gruppo di ricercatori di Cardiologia dell’Università Cattolica di Roma ha scoperto che, quando la placca aterosclerotica si attiva, viene a mancare l’azione della molecola che frena le cellule immunitarie con proprietà infiammatorie, le quali favoriscono l’infarto. Lo studio verrà pubblicato su Basic Research in Cardiology. A colloquio col Professor Luigi Marzio Biasucci del Policlinico Gemelli
È stato identificato un meccanismo che potrebbe in futuro rappresentare una chiave per prevenire e trattare l’infarto: è stato scoperto che nelle sindromi coronariche acute viene ridotta l’azione di una molecola ‘freno’, chiamata CD31. Questa molecola interviene nel processo infiammatorio che favorisce lo sviluppo di infarto. Ad individuare tale meccanismo è un gruppo di ricercatori, guidato dalla Professoressa Giovanna Liuzzo del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’Università Cattolica – Policlinico A. Gemelli di Roma. I ricercatori pubblicheranno il risultato sulla rivista europea Basic Research in Cardiology.
Il risultato, inoltre, è stato presentato nel corso del convegno, intitolato Twenty years of CRP in cardiology: just another biomarker or a look to the future?, tenutosi recentemente al Policlinico Gemelli di Roma. Il Convegno è stato promosso dal Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’ospedale universitario, diretto dal Professor Filippo Crea, e ha visto la partecipazione del Professor Attilio Maseri oltre a numerosi esperti sull’argomento.
Questa molecola ‘freno’ agisce sulle cellule immunitarie che hanno proprietà infiammatorie le quali favoriscono la rottura della placca aterosclerotica e quindi la formazione di un coagulo che causa l’infarto.
“Attraverso studi su colture di cellule umane”, ha spiegato a colloquio col nostro giornale il Professor Luigi Marzio Biasucci del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari del Policlinico A. Gemelli, “abbiamo scoperto che nel caso di infarto o di sindromi coronariche acute, il freno immunitario CD31 risulta ridotto rispetto al caso di pazienti con sindromi coronariche non nella fase acuta e di soggetti sani di controllo”. Secondo gli scienziati, dunque, questa scoperta potrebbe aprire la strada a nuove terapie preventive dell’infarto e potrebbero essere sviluppati farmaci che potenzino l’efficacia di CD31 specifici per i soggetti a rischio.
“In teoria, potendo riattivare questa molecola, potremmo utilizzarla come trattamento per stabilizzare le arterie e quindi ridurre l’aterosclerosi oppure tenere bloccata l’aterosclerosi stessa per non farla progredire verso forme più pericolose, quali appunto l’infarto”, spiega Biasucci. “Potremmo così avere una ‘freccia’ in più al nostro arco, non invasiva ma terapeutica, per bloccare la progressione della patologia e/o a livello preventivo per rafforzare le difese: tale approccio, dunque, potrebbe rappresentare uno strumento utile sia nella fase acuta che nelle fasi precedenti e immediatamente successive. Non andremmo a bombardare il corpo con dei farmaci bloccanti dell’infiammazione in senso lato, che si impiegano anche ad esempio per la psoriasi o nell’artrite reumatoide, ma andremmo a cercare di ripristinare una funzione biologica naturale che si perde durante la fase acuta delle sindromi coronariche”.
“Oggi curiamo bene gli infarti, ma non riusciamo a prevenirli altrettanto bene perché non conosciamo i meccanismi che causano l’occlusione improvvisa delle arterie che portano sangue al cuore”, ha affermato il Professore. “Si può ridurre il colesterolo in un paziente, controllare il diabete – tutti fattori di rischio noti per il cuore – ma ancora non si utilizza una terapia antinfiammatoria specifica per contrastare l’infiammazione delle arterie evidenziata da alti livelli di proteina C reattiva nel sangue”.
“Ciò nondimeno”, prosegue Biasucci, “la promessa riguarda nuove ricerche che daranno i primi risultati nel giro di un paio di anni: studi in corso con farmaci antinfiammatori specifici (come quelli usati per l’artrite reumatoide) sono volti a vedere se in pazienti con proteina C elevata si riesce a prevenire il rischio di eventi cardiovascolari. Se questi studi saranno positivi si potrà capire come prevenire un infarto con farmaci antinfiammatori specifici, andando a controllare i meccanismi infiammatori che sono alla base dell’aterosclerosi. Nel frattempo contiamo di passare ad un livello più avanzato di applicazione sul CD31, valutando in vitro la possibilità di bloccare l’evoluzione dell’infiammazione della placca con il CD31 o con molecole che lo possano stimolare ”.
“Se tutto va bene, i primi risultati che indichino una risposta sulla possibilità di sviluppo di queste nuove prospettive terapeutiche contro l’infarto potrebbero arrivare nel giro di un paio di anni”, conclude Biasucci.
La proteina C reattiva
La proteina C reattiva (PCR) può aiutare ad identificare pazienti a rischio d’infarto non identificati dai fattori di rischio convenzionali, spiegano gli esperti. Si tratta di una molecola del sangue che è un indicatore di uno stato d’infiammazione in atto e i suoi livelli ematici possono anche aumentare di 50.000 volte durante un processo infiammatorio, con un picco a 48 ore dall’inizio del processo. Ma qual è il legame con l’infarto? L’aterosclerosi è una malattia infiammatoria: per questo, in clinica la PCR può essere utilizzata per stabilire il livello di rischio di patologie cardiovascolari; inoltre i livelli di PCR rappresentano un marcatore di rischio di tali malattie indipendente dalle concentrazioni di colesterolo e trigliceridi presenti nel sangue.
La proteina C reattiva, che ha dato anche il titolo al meeting di ieri, “fu messa sulla mappa della cardiologia esattamente 20 anni fa da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine”, conclude il Professor Crea, “ispirato dal Professor Attilio Maseri”.
Viola Rita
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