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Gli infermieri e la ‘schiavitù deontologica’

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Gli infermieri e la ‘schiavitù deontologica’
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L’articolo 49 del Codice deontologico degli infermieri, impone a tutti i lavoratori di “compensare” qualsiasi disservizio o disorganizzazione che può verificarsi nell’assistenza sanitaria. Una norma, questa, che violenta inevitabilmente il verbo “compensare” e che da costantemente vita a forme di sfruttamento inconcepibili ed illimitate.

Recita così l’Articolo 49 del Il Codice deontologico dell’Infermiere:

“L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”.

È un articolo questo che, inevitabilmente, si presta a diverse interpretazioni, a vari ‘adattamenti’, ma soprattutto si presta ad essere un’arma sempre e comunque in mano ai datori di lavoro, che possono così sfruttare gli infermieri in ogni modo per sopperire a tutti i disservizi, alle disorganizzazioni e alle carenze dei propri sistemi sanitari. Soprattutto in un periodo (interminabile) dove la crisi ha praticamente fatto crollare ogni tutela e speranza per i professionisti che si occupano di assistenza e cura.

L’articolo 49 è in realtà una sorta di trappola: da un lato sancisce l’obbligo per gli infermieri di ‘compensare’ i disservizi, dall’altro prevede la possibilità del tutto teorica di ‘rifiutare’ e di ‘documentare’, qualora fosse pregiudicato il proprio ‘mandato professionale’. Rifiuto molto difficile anche solo da pensare, ad esempio, in un regime di precarietà. Regime in cui sono purtroppo impantanati migliaia di infermieri italiani. E tale ‘difficoltà’ di rifiutare diventa un ulteriore incentivo per le aziende ad ‘assumere’ (quando non si impone la libera professione o altri espedienti miserabili) personale precario…

Sopruso legalizzato, quindi? Beh…gli assomiglia parecchio. In quanto in un paese come il nostro, dove leggi e norme sono fatte per essere aggirate o interpretate sempre e comunque a proprio vantaggio, l’obbligo previsto dall’art 49 è diventato per le aziende un baluardo contro ogni garanzia contrattuale, contro ogni diritto, contro ogni dignità professionale.

Ma gli infermieri del Collegio IPASVI di Pisa, carta alla mano, hanno democraticamente detto basta alla norma: il loro è un atto politico di disobbedienza, un rifiuto plateale effettuato per sollecitare la politica e l’IPASVI nazionale a ‘disapplicare’ un articolo che nel tempo, di fatto, ha autorizzato le più disparate ed inconcepibili forme di schiavitù a discapito dei professionisti.

Forme come queste, raccontate a noi di Nurse Times in molte interviste:

“Ero obbligata ad essere una sorta di tuttofare: OSS, ausiliaria e infermiera. Lì non importava chi fossi (un’infermiera!) o cosa sapessi fare meglio: bisognava fare tutto. Poi, come veniva fatto, non interessava a nessuno perché la tua “bravura” era considerata direttamente proporzionale alle tue capacità di ‘corridore’… Bisognava correre, correre e non fermarsi mai. In barba alla professionalità. In barba alla qualità dell’assistenza. A fine turno dovevi aver distribuito il vitto, pulito le spondine dei letti sporche, aver effettuato il giro letti, somministrato tutte le terapie prescritte e risposto a tutti i campanelli che suonavano ininterrottamente in tempi record. Dovevi essere una sorta di macchina, in una strampalata catena di montaggio che prevedeva la tua presenza in più posti simultaneamente. Cosa impossibile. E se eri così sfortunato (e lo eri praticamente sempre) da dover far fronte ad un imprevisto… Eri costretto a restare al lavoro finché non lo avevi risolto. Protestare era praticamente inutile, anche perché la filosofia aziendale che va per la maggiore di questi tempi è: ‘se non ti sta bene scansati e fai passare le persone in attesa che il tuo posto si liberi, abbiamo un mare di Curricula’…”  (Leggi tutto l’articolo)

“Si trattava di un reparto di medicina. Ci lavorai per un anno. E fu un incubo: era una continua corsa contro il tempo, che non bastava mai. Le cose da fare erano tantissime, la burocrazia infinita, i pazienti troppi rispetto agli infermieri in turno e tutti molto problematici. E poi… Gli infermieri rispondevano anche ai campanelli (in medicina lo scampanellio è continuo), effettuavano l’infinito giro letti mattutino, dovevano pensare anche a distribuire i pasti e capitava anche di dover sanificare le postazioni letto. Ricorderò tutta la vita le notti in quel reparto. Si iniziava a correre alle 21 e non si terminava fino alle 7. Mai un momento di tregua. E se per qualche motivo (e capitava spesso) non riuscivi a finire il tuo lavoro entro il tuo orario, dovevi trattenerti per concludere il tuo operato (senza retribuzione) in modo da non complicare il lavoro dei colleghi del turno successivo. In pratica sapevi quando entravi… Ma non sapevi quando ne saresti uscito. Ribellarsi era un inutile rischio, vista l’interminabile coda di professionisti ad attendere un posto di lavoro libero. Bisognava correre. A proprio rischio e pericolo. Bisognava rispondere ai campanelli di corsa. Anche se si stava preparando la terapia, anche se si stava predisponendo una trasfusione. Per i pazienti, per il mio modo di concepire la cura e l’assistenza, era un lager. Dopo aver rischiato di rimetterci in salute, per non compromettere il mio equilibrio emotivo e psico/fisico, iniziai la ricerca di un altro posto di lavoro.” (Leggi tutto l’articolo)

“Il concetto de ‘Il paziente al centro’, tanto decantato dai miei docenti universitari, nella sanità di oggi altro non è che un’astratta e irraggiungibile chimera; qualcosa di inutile, quasi; come se fosse un problema minore: bisogna correre, produrre, fare più cose insieme possibili, senza pause. Non importa se ci si sta dedicando ad operazioni potenzialmente rischiose. Non importa se si sta gestendo pazienti fragili. Non importa se si lavora a contatto coi neonati. Bisogna raggiungere gli obiettivi o per lo meno far sembrare che siano raggiunti, se necessario ‘aggiustando’ un po’ qua e là per dimostrare la propria efficienza a discapito di altri. Fingendo che la coperta non sia mai troppo corta. Bisogna correre! Perché anche se si è in turno in due, manca il personale e quindi bisogna fare il lavoro di sei; non ci sono OSS a supporto, quindi si deve svolgere anche le loro mansioni. Bisogna gestire 40 neonati in un reparto che dovrebbe ospitarne 16, bisogna pulire e disinfettare culle ed incubatrici, bisogna preparare i latti, ecc. Correre, correre, correre! O per lo meno far vedere che si corre! E se per caso a volte storci il naso, protesti perché rivendichi di voler lavorare quanto meno in sicurezza, ti viene puntualmente ricordato che sei precario e che se ‘non ti va di accettare certe condizioni, puoi lasciare spazio alle tante persone che sono in attesa che il tuo posto si liberi’. Quante volte ho sentito questo squallido ritornello. La cosa più triste è che l’ho sentito pronunciare dai colleghi. Infermieri come me.” (Leggi tutto l’articolo)

La Federazione IPASVI Nazionale ha finora difeso l’articolo. E questo nonostante molti infermieri, in questi anni,  siano stati costretti a ricorrere in tribunale per non essere ‘schiavizzati’ dalle aziende sanitarie; con giudizi che, purtroppo, in molti casi gli hanno torto proprio a causa del ‘terribile’ articolo 49. Ed è questo che ha spinto il Collegio di Pisa a prendere la sua decisione: chiedere a gran voce la disapplicazione di una norma che sfrutta in modo indegno chi lavora e danneggia inevitabilmente la qualità dell’assistenza.

Alessio Biondino

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