L’impegno umanitario in varie parti del mondo lo ha recentemente portato anche a Gaza, dove il conflitto israelo-palestinese ha già causato oltre 50mila morti. Riccardo Defrancesco, infermiere 37enne originario di Moena (Trento), attualmente vive e lavora nel Regno Unito.
Tante le missioni umanitarie da lui affrontate, prima in Italia (tra Rovereto e la Val di Fassa), poi in vari teatri di guerra all’estero (Libia, Iraq, Afghanistan e Sierra Leone). Missioni, queste ultime, che non sono bastate a prepararlo per ciò che ha visto a Gaza, dove è arrivato con Medici Senza Frontiere tra l’ottobre e il novembre del 2024.
Il suo ruolo? Coordinatore delle attività infermieristiche in un ospedale da campo.“Non so come descrivere la situazione a Gaza – racconta Defrancesco a TgR Trentino -. È brutale, orribile, disumana. È bastato il primo quarto d’ora in macchina, arrivando sui veicoli blindati dell’Onu. DEntrare a Gaza mi ha gelato il sangue: c’è un livello di devastazione inimmaginabile”.
Gaza si è trasformata in una trappola per chi ci vive: “Nelle zone di guerra dove sono stato prima – prosegue Defrancesco – c’era sempre almeno la sensazione che le persone potessero spostarsi dalle aree di conflitto, perché i civili si muovevano e cercavano di allontanarsi dalle zone di combattimento. A Gaza non è possibile, dalla Striscia non si può uscire. A Gaza non c’è un posto sicuro”.
E se dalla Striscia è difficile uscire, praticamente nulli sono gli aiuti che l’esercito israeliano lascia entrare tra cibo, carburante necessario per l’alimentazione energetica delle strutture e medicinali. Una carenza con cui Defrancesco si è misurato in prima persona: “Siamo rimasti a corto di Tachipirina, garze, soluzione fisiologica: beni davvero di primissima necessità quando si porta avanti un ospedale”.
Questo, unito alla quasi ormai totale mancanza di strutture ospedaliere civili, crea una spirale pericolosa: “Dal punto di vista sanitario la situazione è drammatica. Ci sono gli ospedali come quelli di Medici Senza Frontiere o altre Ong, che si occupano principalmente di trattare feriti di guerra. Ma quella è assistenza chirurgica, mentre a Gaza c’è un enorme bisogno di assistenza medica”.
Per capire il livello delle difficoltà basta pensare a chi è semplicemente alle prese con malattie croniche comuni come diabete, patologie cardiache o ipertensione: “A Gaza non entrano medicine, quindi queste persone non riescono a curare la loro condizione cronica e finiscono per ammalarsi. E quando si ammalano non ci sono posti per loro in ospedale. Così le persone muoiono per condizioni che sarebbero trattabilissime. Come tutti quei 50-60enni che non possono avere le pastiglie per la pressione alta e vedono aumentare il rischio di infarti e ictus. Quando accede, non è possibile farci nulla”.
Per chi è stato a Gaza il dramma e la speranza si fondono nei ricordi. Come nel caso di una bambina di 4 anni, con ustioni sul 40% del corpo, dopo che la tenda in cui era con la sua famiglia è finita sotto le bombe di notte. La madre è morta e le sue condizioni parevano disperate, anche per l’impossibilità di accedere ad antibiotici e trattamenti adeguati: “È stata per tre settimane nella nostra rianimazione. E in qualche modo siamo riusciti a tenerla in vita, a fare anche qualche trapianto di pelle per coprire le zone ustionate”.
La piccola è poi entrata in una lista d’evacuazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che l’ha fatta arrivare prima in Egitto, per poi raggiungere la Giordania, infine il Texas. Il suo destino resta incerto e la sua vicenda mostra bene le difficoltà, materiali ed emotive, con cui si misurano ogni giorno i sanitari a Gaza.
“Non so se sia sopravvissuta, perché le sue ustioni erano davvero gravi – conclude Defrancesco -. Quello è stato un caso che ha coinvolto profondamente tutto il team, perché abbiamo dovuto cercare veramente di fare il possibile con le risorse che avevamo per tentare di tenerla in vita, almeno fino al giorno dell’evacuazione”.
Redazione Nurse Times
TgR Trentino
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