Daniela Poggiali, ex infermiera di Lugo, è stata assolta in appello in quanto “il fatto non sussiste”. La paziente sarebbe deceduta per scompenso glicemico e l’imputata non depistò proprio niente
Era stata condannata all’ergastolo dalla corte d’assise di Ravenna per aver ucciso una sua paziente 78enne, Rosa Calderoni, iniettandole due fiale di potassio la mattina dell’8 aprile 2014 (VEDI articolo). Sentenza, questa, che l’ha fatta rinchiudere nel carcere di Forlì per molto tempo.
Il Pm Angela Scorza aveva spiegato che l’imputata tentò anche di depistare le indagini; che era pure sospettata di diversi furti (70-80 all’anno) verificatasi nel reparto dove lavorava e che, soprattutto, in sua presenza c’erano state numerose altre morti sospette. Aveva chiesto per l’imputata non solo l’ergastolo, ma anche l’isolamento diurno per un anno e mezzo, in quanto “In criminologia sarebbe indicata come serial killer dominante: uccidendo, si sentono potenti. E lei ha ucciso non per pietas ma perché si compiace di dare la morte”.
Nelle motivazioni di tale sentenza, il giudice Corrado Schiaretti, presidente della corte d’assise, la ritrasse come “Intelligente, fredda, capace di comprendere le situazioni che si creano” e “decisa, spavalda, arrogante”, sicura protagonista di “una impressionante continuità di comportamenti illegittimi” (VEDI articolo).
Parliamo di Daniela Poggiali, la 45enne ex infermiera “killer” dell’ospedale Umberto I di Lugo, nel ravennate. Ovvero di quella collega che, per mesi, c’era stata descritta dai media come una spietata serial killer. Poi però è arrivata la sentenza della Corte d’Assiste d’Appello di Bologna, che ha praticamente ribaltato tutto (VEDI): assolta perché il fatto non sussiste.
Le motivazioni di questa nuova, sconvolgente sentenza sono state pubblicate in questi giorni. In pratica i tempi della morte della paziente, nel 2014, non sono compatibili con quelli da somministrazione di una dose letale di potassio; che, invece, l’avrebbe uccisa molto più rapidamente. La paziente sarebbe morta, semplicemente, per un “verosimile scompenso glicemico”. Morte naturale.
Ma non è stata solo questa parte, della prima sentenza, a crollare: per quanto riguarda le statistiche sui decessi che avevano proiettato la Poggiali in cima a una non invidiabile classifica (“quando c’è lei in turno si muore di più”), il giudice ha riportato una relazione dell’Ausl datata aprile 2014 secondo cui “nei primi tre mesi degli anni 2102, 2013 e 2014 non emersero significative differenze in termini di mortalità fra un reparto e l’altro”.
Anche le “indagini fai da te del personale ospedaliero” e le “improvvide indagini domestiche” che hanno caratterizzato la condanna in primo grado e che consentirono il recupero del deflussore attribuito alla paziente deceduta (in cui era stata isolata una forte concentrazione di potassio), sono state bollate come insufficienti o poco attendibili.
E il depistaggio messo in atto dall’infermiera? Confutato pure quello, scartato come possibilità logica, sia alla luce della relazione dei periti sia per ciò che concerne le ‘capacità infermieristiche’ dell’imputata.
E la concentrazione di potassio trovata nel corpo della signora Calderoni? Beh, anche quella è in discussione: il metodo utilizzato dal professor Tagliaro, consulente dell’accusa, per determinare la concentrazione di potassio dall’umor vitreo prelevato dai bulbi oculari della signora a 56 ore dal decesso, sarebbe un metodo per cui “non esiste consenso adeguato all’interno della comunità scientifica” e “sconosciuto alla medicina forense, che non risulta essere mai stato utilizzato in altro processo”.
I processi non si fanno in TV, sui giornali o sui social. E a Daniela Poggiali, probabilmente, si possono contestare ‘solo’ quegli ignobili selfie coi cadaveri dei pazienti. Che non fanno di lei un’infermiera degna di tale nome, questo sì.
Ma che non fanno di lei neanche un’assassina.
Fonte: Repubblica
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