L’eutanasia è l’atto di porre termine di proposito all’esistenza di una persona in gravissime condizioni di salute, al fine di alleviarne il dolore e le sofferenze
Eutanasia, in greco antico, significa letteralmente buona morte. Oggi con questo termine si definisce correntemente l’intervento medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale.
Si parla di eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato; di eutanasia attiva quando il medico causa, direttamente, la morte del malato; di eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.
Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito, ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza di un medico e con mezzi forniti dallo stesso.
L’eutanasia attiva non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni. Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580. Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.
Così come succede anche all’estero, il tema dell’eutanasia attira l’attenzione dell’opinione pubblica quando i media portano, con fin troppa dovizia di particolari, alcuni casi in primo piano.
Nella primavera del 2000 tre sono stati i casi particolarmente dibattuti sulle pagine dei giornali italiani.
Il 23 maggio un giovane di Viareggio ha aiutato il suo amico a farla finita, con una dose di insulina: ora rischia fino a 15 anni, nonostante i genitori stessi del defunto definiscano il suo gesto “un atto di amore”.
Negli stessi giorni un uomo di Monza veniva condannato a sei anni e mezzo per avere, due anni prima, staccato i fili che pompavano aria ai polmoni della moglie. Il 24 aprile 2002 il marito è stato però assolto in appello dall’accusa di omicidio volontario premeditato. I giudici hanno infatti stabilito che l’ingegnere Forzatti, staccando la spina del respiratore al quale era attaccato il corpo della moglie, non la uccise in quanto, a loro avviso, la donna era già morta.
Nel maggio 2001, gli ultimi giorni di Emilio Vesce, storico militante radicale, infiammarono la campagna elettorale per via delle dichiarazioni del figlio contro il nutrimento artificiale, «non più attuato come terapia ma come accanimento terapeutico».
Nel settembre 2006 è scoppiato il caso di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare e oramai incapace di muoversi, che ha chiesto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di poter ottenere l’eutanasia. Il Presidente ha subito invitato le Camere a discutere del problema, ma è rimasto inascoltato. Il successivo 21 dicembre Piergiorgio Welby è morto, scatenando una forte ondata di commozione in tutto il Paese.
Nel luglio 2007 è morto Giovanni Nuvoli, che aveva a sua volta chiesto che gli fosse staccato il respiratore: per impedire che un medico rispettasse le sue volontà erano stati inviati i carabinieri. Nuvoli è stato così costretto, per porre fine alle sofferenze, a non assumere più né cibo né bevande, “lasciandosi morire” di fame e di sete.
Il caso di Eluana Englaro, completamente immobile e priva di coscienza dal 1992, ha tenuto banco per molti anni. Il padre, stanco di vederla tenuta in vita da un cannello naso gastrico (e contro la stessa volontà della figlia), ha intrapreso diverse iniziative legali per sospendere le cure, senza alcun successo per molti anni.
Finalmente, nell’ottobre 2007, la Corte di Cassazione, nel rinviare la questione alla Corte d’Appello di Milano, ha stabilito che l’interruzione delle cure può essere ammessa, quando il paziente si trova in uno stato vegetativo irreversibile e se, in vita, aveva manifestato la propria contrarietà a tali cure.
La Corte d’Appello, nel luglio 2008, ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata: contro il provvedimento è stato presentato un ricorso da parte del procuratore generale di Milano, ricorso poi bocciato dalla Corte di Cassazione. Eluana si è spenta nel febbraio 2009 in una clinica di Udine, dopo che il governo Berlusconi aveva tentato di emanare un decreto legge ad hoc per impedire il compimento della volontà di Eluana.
Nel novembre 2010, il noto regista Mario Monicelli, affetto da malattia terminale, decise di lanciarsi dal quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato. Esattamente un anno dopo è stato infine l’ex parlamentare Lucio Magri a scegliere il suicidio assistito in Svizzera. Nel 2013 a far notizia è il caso di Piera Franchina, a sua volta recatasi in Svizzera. In ottobre è ancora un regista, Carlo Lizzani, a togliersi la vita lanciandosi dal terzo piano: aveva detto che avrebbe voluto l’eutanasia insieme alla moglie, come Romeo e Giulietta.
Questi casi, se sono strazianti dal punto di vista di chi ne è coinvolto direttamente, finiscono quanto meno per dimostrare come la legislazione sia assolutamente inadeguata ai tempi.
Riguardo gli infermieri c’è da citare la posizione dell’IPASVI e quanto indicato dal Codice Deontologico.
L’articolo 20 recita: L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte.
All’articolo 34 si trova: L’infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari.
Il successivo (art. 35) sancisce il comportamento del professionista durante il fine vita: L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale. In merito al controverso argomento dell’accanimento terapeutico, l’articolo 36 si pronuncia così: L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita. Infine, in merito all’eutanasia: L’infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito (art.38).
Nell’ambito sanitario quindi, il personale si scontra ogni giorno con esperienze di persone malate che sono separate da un filo sottile con la morte ed inevitabilmente porta al porsi domande sull’etica di questo vissuto, su cosa possa essere più giusto per evitare o alleviare la sofferenza del malato e delle persone che lo circondano, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista della propria dignità.
Quando il malato sa che non avrà cura per la propria malattia e questa porterà gradualmente al decesso, il senso di angoscia prevale e l’unico desiderio che resta è che il proprio calvario finisca presto.
Per il personale sanitario questa resta una sconfitta, poiché la sua missione più importante sia proprio quella di alleviare il dolore umano e di dare quella forza e quella speranza che permettono tanto ad una persona di migliorare le proprie condizioni più velocemente e che, in questo caso, si trova impotente di fronte ad una situazione in cui non vi è via d’uscita e in cui sembra difficile e fuori luogo qualsiasi tentativo di consolazione.
Ci si pongono delle domande ogni giorno. Un prolungamento della vita per una condizione irreversibile, dipendente da un macchinario che ne permette l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione, viene considerata vita?
La dichiarazione anticipata di trattamento, può essere considerata una sorta di consenso informato “anticipato”, poiché provenga direttamente dalla volontà del soggetto coinvolto e che ha precedentemente dichiarato?
Le domande sarebbero tante e tante ancora, senza risposta. Sono anni ormai che l’argomento viene affrontato con un certo attivismo sia da parte della Sanità che della popolazione. Il dibattito viene affrontato dalla politica, dal Comitato Nazionale di Bioetica e dai professionisti sanitari, ma nonostante ciò, la giurisprudenza attuale non garantisce ancora nessuna soluzione. Nell’attesa di una migliore e più attenta legislazione, si cerca di avere risposte sul miglioramento dell’assistenza, del supporto morale del malato e dei familiari, sul sostegno di cui il malato ha bisogno e sul “rapporto di fiducia” che si può instaurare tra il malato terminale e l’infermiere.
Noi del gruppo ACILF abbiamo presentato un sondaggio online su un social network ad un gruppo di infermieri in numero di 100 unità e la loro idea sull’eutanasia è chiara e denota l’altissimo numero di professionisti che auspica in una modifica delle attuali norme italiane restrittive in materia.
Chi più degli infermieri che sono a stretto contatto con la sofferenza può avere le idee chiare su questo argomento?
Le risposte fanno pensare.
Domanda: sei favorevole all’eutanasia?
Ha risposto “SI sono favorevole” l’85% degli intervistati.
Ha risposto “No, sono contrario” l’11% degli intervistati.
Ha risposto “Non so rispondere” il 4% degli intervistati.
Cosa aspetta l’Italia a discutere di questo argomento nei “Palazzi del potere”?
Roberto Corbezzolo – Servizio informativo del Gruppo ACILF
©Riproduzione riservata
Fonti: IPASVI; Osservatorio parlamentare UAAR; ANIARTI
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