Home Specializzazioni Geriatria Essere infermieri…in unità di terapia intensiva neonatale e “lo spazio grigio”
GeriatriaSpecializzazioni

Essere infermieri…in unità di terapia intensiva neonatale e “lo spazio grigio”

Condividi
Essere infermieri...in unità di terapia intensiva neonatale e "lo spazio grigio"
Immagine tratta da internet: www2.villabetania.org
Condividi

In Italia, ogni anno, oltre 40,000 neonati nascono prima della 37a settimana di età gestazionale e circa 5000 tra questi nascono con un peso inferiore a 1500 gr, cioè altamente prematuri

Spesso leggiamo di storie straordinarie legate ai bambini che nonostante la grave prematurità ce l’hanno fatta. Poco o nulla sappiamo, invece, del lavoro oscuro di centinaia di colleghi infermieri, che lavorano in UTIN e che rendono possibile tutto ciò.

La storia di Maria Pia, vuole essere un omaggio a tutti i colleghi infermieri che lavorano nelle terapie intensive neonatali

10487606_1408029029497578_459505675700051800_n
Maria Pia e la sottoscritta

Per chi di noi, ha scelto di fare dell’assistenza agli ammalati  il proprio lavoro, arriva il momento di oltrepassare, volenti o nolenti, la barricata e di ritrovarsi in un territorio stranamente ostile, quello ospedaliero, in quanto pazienti o parenti di questi ultimi.

Territorio, ricco di insidie ed ostacoli proprio in virtù della familiarità degli stessi ambienti, data dalla nostra professione. “Familiare”, secondo una delle definizioni presenti sul vecchio dizionario Zingarelli in mio possesso, è “ciò che si conosce bene per lunga pratica o dimestichezza”.

E’ trascorso poco meno di un anno, da quello che doveva essere un momento di gioia condivisa, ossia la nascita di mia nipote Maria Pia, e che in realtà è stato un momento di sofferenza e speranza condivisa, prosieguo di una gravidanza fortemente a rischio, portata avanti per la metà delle 25 settimane di gestazione in ospedale e conclusa con un taglio cesareo che ha segnato l’ingresso per genitori e parenti, in quello “spazio grigio”, così come viene chiamato da neonatologi ed infermieri che lavorano in UTIN, fatto di attesa e di una fisicità limitata da spazi chiusi.

Ricordo bene gli avvenimenti di quel sabato mattina, giorno fissato per il taglio cesareo. Ricordo, anche, di essermi alzata presto. Non mi riusciva di riaddormentarmi dopo essermi svegliata per l’ennesima volta. In questi casi il movimento fisico, alzarsi e prepararsi per l’uscita è l’unica cosa che riesce a contrastare efficacemente il movimento confuso e inarrestabile dei propri pensieri e delle proprie emozioni.

Avevo chiesto ed ottenuto il permesso di poter assistere al parto cesareo, per poter infondere fiducia e coraggio a mia cognata, la quale era estremamente provata dai lunghi mesi di degenza ospedaliera.

Non sapevo ancora come mi sarei sentita quella mattina. Appena indossata la divisa, smettevo i panni di zia e cognata, per ritrovarmi in quelli di infermiera. La nostra divisa credo che funga, talvolta, soprattutto agli occhi dei nostri cari, da scudo protettivo contro qualsivoglia avversità. A noi tocca essere forti, a prescindere. Non ci viene concesso di abdicare alle emozioni. La divisa che indossiamo è una diga contro le nostre e le altrui paure.

Durante il tirocinio come allieva infermiera, ricordo  che il primo reparto assegnatomi fu l’ostetricia. Ricordo anche, che quell’esperienza non mi piacque molto. E prima del taglio cesareo di mia cognata, non mi era mai capitato di vedere così tanti medici in una sala operatoria. La degenza così protratta nel tempo, aveva fatto sì che mia cognata fosse seguita da tutti i medici del reparto.

Era inutile nasconderselo. Era stata una gravidanza a rischio e sarebbe stato un parto a rischio. In gioco vi era non solo la vita della bambina, ma anche quella della madre. La tensione era acuita dall’attesa per un taglio cesareo d’urgenza, che protraeva il momento della verità.

La durata dell’intervento, una volta cominciato, è stata di poco più di un’ora, ma solo in questi casi si percepisce la sensazione di elasticità del tempo. A me quell’ora è sembrata infinita. E la tranquillità, degli operatori, nonostante la situazione, sembrava dilatare ancor di più la percezione del tempo

Ore 14 e 36 del 24 Ottobre 2009, 960 grammi. Dopo il primo vagito, il tempo ha incominciato a correre e tutto è diventato frenetico. La neonatologa e l’infermiera dell’UTIN, pronte ad eseguire le prime aspirazioni e a depositare la piccola in termoculla per avviarsi in terapia intensiva. L’infermiera di sala a monitorare la partoriente nel post-chirurgico.

A partire da quell’istante venivo catapultata in quello spazio grigio, a cui accennavo, e che rappresentava per me, più che per i genitori, l’inizio di un percorso che negava la fisicità del contatto e la sospensione di ogni emozione.

E’ un’esperienza forte, logorante e che mette alla prova il carattere di chi si deve far bastare la visione di un corpo minuscolo, pronto ad affrontare le prime difficoltà di una vita nata anzitempo.

Credo di non aver mai apprezzato così tanto, come in quei lunghissimi cinque mesi di UTIN, il lavoro discreto, difficile dei miei colleghi infermieri. Alcuni di loro ho avuto modo di rincontrarli dopo anni, con altri avevo condiviso il momento formativo e altri ancora li ho conosciuti in questa circostanza. Ai loro sguardi e alle loro parole, mi sono aggrappata come un povero disperato che annaspa tra le onde si aggrappa ai soccorritori.

prematuro-2
Immagine tratta da internet: www.ilmiodono.it

 

Ero arrabbiata, triste e soprattutto impotente. Dietro quel vetro, in quel lungo corridoio angusto, di fronte a quella piccola creatura attaccata a tutti quei macchinari, di cui sapevo bene la funzione e lo scopo, ho realizzato quanto sia importante prendersi cura delle proprio fragilità, così come i miei colleghi si prendevano cura della fragilità incarnata in Maria Pia.

Ho accettato, ancor prima che come infermiera come persona, l’idea di confrontarmi con le mie debolezze e con l’opprimente sensazione di impotenza di fronte all’incertezza della vita.

Friedrich Nietzsche, ne “La gaia scienza” diceva:

“Il grande dolore, quel lungo, lento dolore che vuole tempo (…) costringe (…) a discendere nelle nostre ultime profondità (…). Dubito che un tale dolore “renda migliori”; eppure so che esso ci scava in profondo (…). Non vorrei alla fine che passasse sotto silenzio la cosa più importante: da tali abissi, da tale grave malanno (…) si torna indietro rinati, con la pelle cambiata (…) con sensi più giocondi, con una seconda più pericolosa innocenza nella gioia, più fanciulli e al tempo stesso cento volte più raffinati di quanto mai per l’innanzi ci fosse accaduto.”

Ho accettato dunque, che il dolore e il senso di frustrazione per l’impotenza, provata davanti a quel piccolo corpo sofferente, scavasse nel profondo. Cercavo ogni occasione per potermi confrontare con i miei colleghi, chiedevo loro notizie non solo sulle terapie, e sugli esiti della prematurità ma anche degli effetti della deprivazione emotiva a cui la piccola veniva costretta. Ma tutto era di là da venire.

Io guardavo avanti, ma giorno dopo giorno la cruda realtà mi costringeva a confrontarmi oltre che con il tema della speranza, con quello della morte. Io lì, dietro un vetro, reso opaco dal vapore acqueo presente nel mio respiro e Maria Pia assistita e curata da infermieri con cui credo di aver stabilito uno strano rapporto di vicinanza umana e professionale

Mia nipote, come tutti i bambini nati così prematuramente, cominciò ad avere problemi di bronco displasia e infezioni subentranti, intubata ed estubata più volte, fino ad esserlo per più di tre mesi consecutivamente. Trasfusioni ematiche, dosi massicce di surfactante che le permettesse di far giungere a maturità i suoi piccoli polmoni.

Dopo i primi due mesi, ho imparato a leggere negli sguardi dei miei colleghi, non serviva che mi dicessero nulla, i loro volti parlavano da sé. Puoi provare ad indorare la pillola a chi di medicina sa ben poco, non di certo ad un collega. Maria Pia non riusciva a staccarsi dal tubo endotracheale che la teneva attaccata alla vita, come io lo ero alla speranza.

Il tempo passava e il Natale si avvicinava. Orazio, uno degli Infermieri che ho imparato ad apprezzare soprattutto per la sua capacità di accoglienza e disponibilità, un giorno mi spiegò che cosa intendessero con il termine spazio grigio. Mia nipote doveva raggiungere le trentanove settimane perché potesse avere una chance di farcela.

In questi casi, la cosa più importante è che possano arrivare indenni a questo traguardo e cioè vivi. Natale e il Capodanno scorsi, anziché gioia mi hanno regalato un dolore immenso. Mia nipote stava male, sempre più, e le facce dei miei colleghi che cercavano di schivare il mio volto, ne erano la testimonianza. E, d’altro canto cosa avrebbero potuto dire di più. Con qualcuno di loro, avevo affrontato l’argomento dell’accanimento delle cure in terapia intensiva. Ma Maria Pia non intendeva mollare.

Nietzsche diceva bene, questo tipo di dolore non ti rende una persona migliore, ti rende una persona nuova. Questa sensazione l’ho avvertita forte la sera in cui, Maria Pia ha iniziato a ciucciare il tubo endotracheale che le permetteva di respirare, come se fosse stato un ciuccio vero e proprio.

Molte cose sono successe durante quei lunghi cinque mesi. Conosco bene quali siano i meccanismi che fanno sì che alcuni infermieri accettino di confrontarsi con il dolore e le proprie fragilità e quali impediscano, che altri infermieri ancora, non riescano in questo processo.

Ci si prende cura non solo attraverso il sapere tecnico-scientifico, ma anche attraverso la qualità delle relazioni che si riescono ad instaurare con gli altri e con se stessi. Molti colleghi pensano che allontanando da sé queste emozioni, possano tenere lontano da sé, anche il dolore. Ma questo atteggiamento, rinvia soltanto, il problema dell’accettazione del senso di inadeguatezza e di impotenza che questo lavoro ci costringe ad affrontare.

Lo sa bene la signora Annamaria, che nel momento di prendere le consegne per iniziare il turno di pomeriggio, vedendo la termoculla in cui si trovava Maria Pia, vuota, cominciò a piangere senza riuscire a parlare. Il medico di turno dovette accompagnarla fino al primo sgabello disponibile. Le lacrime avevano riempito i suoi occhi. Quel vuoto nella termoculla, aveva bloccato i suoi muscoli. Toccò al medico, tranquillizzarla e invitarla a volgere lo sguardo verso un’altra culletta in cui la piccola era stata spostata per poter ripulire bene la termoculla in cui era stata per tre mesi consecutivi.

Maria Pia ha dimostrato subito di avere una tempra d’acciaio, ma mi chiedo, se senza la vicinanza di quegli infermieri, senza le carezze di Andrea e Patrizia, mia nipote avrebbe lottato così tanto. Gennaio è stato il mese della svolta. Di quello spazio grigio cominciavo ad intravedere l’uscita.

I suoi piccoli polmoni hanno cominciato lentamente a funzionare e Maria Pia è transitata, finalmente, in terapia semi intensiva. Come si fa a dimostrare sentimenti quali la gratitudine?

Li avrei voluti abbracciare, (RockaBilly, il Rubicondo, nomignoli con i quali al di qua del vetro, chiamavamo alcuni degli infermieri di cui non ricordavamo il nome), uno ad uno, anche i colleghi più distaccati e seri, o solo professionali come avrebbero detto loro.

E un po’ come quando si fa la conta dei morti e dei feriti, dopo una battaglia lunga ed estenuante, adesso bisognava cominciare a fare i conti, con i possibili danni, che le crisi respiratorie e una intubazione così protratta potevano dare.

Dopo tre lunghissimi mesi di terapia intensiva, iniziava un altro percorso. Mia nipote adesso doveva prendere peso. Era ancora così piccola e tra le braccia di Andrea sembrava ancora più minuscola. Oltrepassata la trentanovesima settimana il peso lentamente cominciava ad aumentare e quelle gambine che per mesi mi erano sembrate troppo sottili e trasparenti per essere vere, cominciavano ad assumere una loro fisionomia più certa.

Il tempo elastico, tornava a dar segno di sé. I due mesi di terapia semi intensiva, sono passati velocemente. I medici avevano intanto deciso che la bambina sarebbe rimasta in terapia semi intensiva, fino all’uscita, senza passare dalla terapia minima.

Non riesco a ricordare il giorno, in senso anagrafico, delle dimissioni di mia nipote. Ricordo, invece, che quel giorno io facevo pomeriggio nel mio reparto e non sarei riuscita ad essere presente. Era la fine di Marzo di quest’anno. Il freddo pungente me lo ricordo bene, così come la voglia a lungo repressa di abbracciare quella piccola creatura.

Non ce la facevo a resistere e sebbene mio fratello abitasse parecchi chilometri fuori Catania, a fine turno, mi sono messa in macchina e li ho raggiunti. Per quanto mi piacciano le parole, per quanto io le ricerchi e le studi, non riuscirei a rendere, anche utilizzando aggettivi superlativi e paroloni da titolo in prima pagina, la meraviglia di quell’incontro.

Sono rimasta muta e sbalordita di fronte a quella bambina. In quell’istante il mio pensiero è corso a tutti i miei colleghi che con il loro lavoro avevano reso possibile quel momento. Ho incorniciato una foto che mi ritrae in quell’istante e tutte le volte che la guardo non posso non pensare a loro.

Altri mesi si sono aggiunti ai precedenti e così come una madre che non abbia voluto tagliare del tutto il cordone ombelicale che la legava ai propri figli, è iniziato il periodo dei controlli o come si dice il follow-up. Controlli che hanno lo scopo di accertare se le cose procedono per il verso giusto o meno. Sembrerebbe proprio, fino a questo punto, una storia a lieto fine.

Ma non viviamo in un regno incantato. Non ci sono re e regine, né streghe cattive o fatine. Uno dei primi regali che ho fatto alla mia nipotina è stato un dvd musicale. Pensavo che per troppo tempo, fosse stata privata delle gioie, che sanno dare conforto, come la musica. E, poiché, sono un’appassionata di musica ho pensato che la bellezza e l’allegria delle note di Pierino e il lupo di Prokofiev, potessero servire a restituirle una piccola parte di ciò che le era stato portato via.

Piccoli segnali, a cui dovevamo prestare attenzione, non davano presenza di sé. I suoni, i rumori, non riuscivano a destare l’attenzione di Maria Pia. Ed è così che abbiamo deciso di fare le indagini strumentali del caso, che hanno dato la conferma di una sordità grave e profonda. Maria Pia vive in un mondo ovattato. Un mondo, però, fatto di amore ed attenzioni.

Non avrei mai pensato che una bambina sottoposta ad un trauma così enorme, come solo la prematurità può essere, potesse essere una bambina gioiosa, serena, allegra e tenera. Lo spazio grigio sembra essere alle spalle. La sofferenza ci ha reso persone nuove e con una grande determinazione. Maria Pia sentirà suoni e parole, così come sente l’amore delle persone che la circondano. E’ una promessa che le ho fatto.

Mia nipote mi ha costretto a confrontarmi con le mie fragilità, di persona e di professionista della salute. Dico sempre ai miei colleghi che noi infermieri abbiamo un grande privilegio, ossia quello di confrontarci con le persone, in uno dei momenti più intimi e veri, della loro vita.

In un bel film, di qualche anno fa, che è Will Hunting genio ribelle, uno dei protagonisti afferma che non c’è sapere senza “sentire”. E questo è ciò che rende unico il nostro lavoro. So bene che il mio è uno strano modo, di ringraziare non solo dei colleghi, ma delle persone, che hanno fatto si che una speranza prendesse corpo.

Maria Pia, dovrà superare molti ostacoli ancora, ma potrà farlo anche grazie a questi splendidi infermieri, che dedicano quotidianamente le loro attenzioni a delle piccole creature, affinché altre storie possano essere raccontate.

P.S.

Di tempo ne è trascorso da allora (sette anni fra qualche settimana). Settimana scorsa, dopo un paio di settimane lontano da casa, sono passata a prendere Maria Pia, per fare i nostri soliti giri e giocare un po’ con lei.

E’ una bambina iperattiva e curiosa come pochi, che difficilmente dorme al pomeriggio a meno che non le si faccia sentire qualche bella melodia. Ed è così che sedute sul divano con il tablet davanti a noi, le note di “strade parallele” e le splendide parole di Franco Battiato e l’abbraccio della zia, sono riuscite laddove pochi riescono. Vorrei poter trovare le parole “giuste” per spiegare a ciascuno di voi, la gioia che sgorga nel mio cuore tutte le volte che Maria Pia mi dice: “ciao, zia Sara”, ma non ne esistono.

Grazie a tutti gli Infermieri, che hanno fatto si che Maria Pia diventasse un desiderio realizzato, in particolare agli Infermieri dell’UTIN del Santo Bambino di Catania e ai colleghi del reparto di ORL di Parma, e naturalmente a quei chirurghi che le hanno restituito l’udito grazie ad un impianto cocleare.

La zia Sara alias Rosaria Palermo

Rosaria Palermo

Foto

www2.villabetania.org

Condividi

Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati
CdL InfermieristicaInfermiere e rischio InfettivoNT NewsSpecializzazioniStudenti

Batteri Gram-positivi e Gram-negativi: le differenze che devi conoscere

Quando si parla di batteri la distinzione tra Gram-positivi e Gram-negativi è una delle più importanti...

Iss: "Restano elevati i tassi di infezioni correlate all'assistenza e resistenza agli antibiotici"
CittadinoInfermiere e rischio InfettivoNT NewsPrevenzioneSpecializzazioni

Infezioni correlate all’assistenza (ICA)

Le Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA) rappresentano un problema crescente nel mondo della...