“In Italia attesi otto casi l’anno, ma finora nulla diverso rispetto anni passati”, dice all’agenzia Dire l’epatologo dell’ospedale fiorentino.
“Il problema non è se si sono verificati casi di epatiti acute gravi nel nostro Paese, perché questo accade ogni anno, ma se i casi che si sono verificati superano l’atteso per il periodo, e quindi se c’è un problema di incidenza”. Così Giuseppe Indolfi, epatologo dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze e professore associato di Pediatria all’Università di Firenze, interpellato dall’agenzia Dire in merito ai casi di epatite acuta di non definita diagnosi nei bambini in Italia.
Non devono quindi preoccupare? “In questo momento direi assolutamente no – risponde l’esperto -, perché sono condizioni che noi conosciamo, ma possono essere molto gravi, e quindi ci vuole attenzione. Nel caso in cui dovessimo verificare, ma solo attraverso studi scientifici, che esiste davvero un aumento dell’incidenza, allora in quel caso dobbiamo assumere le misure che ci servono per rispondere a un problema. Ma il primo passo è capire se il problema c’è”.
In Italia si sono finora verificati quattro casi. “Nulla di diverso rispetto a quanto già successo in passato – sostiene Indolfi -. Quello che invece potrebbe essere diverso è che, se in passato ci si attendevano 8 casi in un anno, dobbiamo verificare se questi eventuali quattro casi in quattro mesi rappresentano un aumento dell’incidenza. Solo se ciò dovesse essere dimostrato, potremmo trovarci di fronte alla necessità di affrontare una situazione diversa rispetto al solito. Comunque non una patologia diversa, bensì una condizione epidemiologicamente diversa”.
Ma otto casi attesi di epatite acuta grave (che potrebbe richiedere il trapianto di fegato) a eziologia ignota in un anno è un dato realistico per il nostro Paese? “È abbastanza realistico – dice ancora Indolfi alla Dire -. Nel senso che, se si guarda alle statistiche dei trapianti per epatite acuta grave ‘non-A’ e ‘non-E’, storicamente in Italia tali trapianti sono sempre stati fatti in un numero inferiore ai dieci per anno”.
A oggi non è ancora noto quale sia l’agente patogeno che ha provocato i casi, ma è un errore parlare di epatiti mai viste prima: “Noi categorizziamo questa epatite dal punto di vista nosologico con un termine, cioè epatite ‘non-A’ e ‘non-E’, che significa che è un’epatite nei confronti della quale abbiamo fatto tutto quello che potevamo da un punto di vista diagnostico. Non abbiamo identificato i virus che comunemente determinano questa forma di epatite. Per caratteristiche cliniche sembra un’epatite virale, ma non abbiamo una diagnosi eziologica specifica. E questa è una condizione che noi conosciamo, non nuova”.
Nel mondo, secondo l’Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control), sono 190 i casi di epatite acuta identificati nei bambini, mentre per l’Iss (Istituto superiore di Sanità), che sul tema ha messo a punto un focus, al 21 aprile i casi in bambini sono stati riportati in Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Olanda, Romania, Spagna, potenzialmente in Svezia, il 19 aprile in Israele (12 casi) e il 20 aprile in Italia (quattro casi). La maggior parte dei Paesi riporta un numero di casi limitato, ma fa eccezione il Regno Unito che, sempre al 21 aprile, aveva identificato oltre 100 bambini di età inferiore a dieci anni con epatite acuta, di cui otto hanno ricevuto un trapianto di fegato.
“Stando ai dati ufficiali – commenta Indolfi, che è anche responsabile dell’area fegato della Società europea di Gastroenterologia e consulente dell’Oms per le epatiti virali -, in Inghilterra nell’ultimo mese hanno rilevato un numero di casi che sembra eccedente rispetto all’atteso di un’epatite virale acuta grave. Non si tratta, però, di una patologia o di una condizione patologica nuova, ma di una condizione patologica che già conosciamo e diagnostichiamo, anche se raramente. L’eccezionalità, in Inghilterra, sta nel fatto che ne hanno avuto un numero concentrato e apparentemente superiore rispetto all’atteso in un arco temporale abbastanza breve”. Insomma, nasce ora la necessità di capire se “siamo di fronte a un aumento reale dell’incidenza di una patologia nota oppure a una coincidenza di casi che si sono verificati in un arco temporale più ristretto”.
Si è parlato anche di un’ipotetica correlazione con il Covid, ma su questo gli esperti concordano: “In questo momento non c’è nulla che supporti una correlazione con il Covid – conferma anche Indolfi alla Dire -. Un numero di pazienti nella coorte pubblicata, che è quella che si riferisce ai dieci bambini scozzesi, aveva anche il Covid, ma se ora andassimo a fare un giro in un qualsiasi ospedale pediatrico o dell’adulto, ci sarebbero bambini con problemi appendicolari che hanno anche il Covid. Questo, però, non significa che sia stato il Covid a fargli venire l’appendicite, ma significa che c’è un’associazione casuale tra una patologia nota dell’età pediatrica, che è l’appendicite, e il Covid. In questo momento non c’è niente che faccia sospettare né che c’entri il Covid né il vaccino”.
Stando invece ad alcuni scienziati britannici, l’aumento dei casi di epatite acuta bei bambini potrebbe essere legata addirittura ai lockdown degli ultimi due anni. “Questa è un’ipotesi affascinante, in cui, come già dimostrato per altri virus, si ipotizza che ci possa essere una conseguenza della mancata esperienza immunologica dei bambini che sono stati isolati – commenta ancora Indolfi . Però credo sia più opportuno capire prima se c’è davvero un problema. Poi, se ci fosse davvero un problema, allora affronteremo tutte le ipotesi nel rigore scientifico che queste ipotesi meritano. Ma in questo momento è soltanto un’ipotesi”.
Per altri virus una simile dimostrazione è stata già fornita: “Noi abbiamo avuto a dicembre un’epidemia di bronchioliti – fa sapere Indolfi -, e abbiamo dimostrato che i numeri erano davvero in aumento e che, verosimilmente, i bambini che non si erano ammalati di bronchiolite durante il lockdown avevano rappresentato una coorte di maggiore suscettibilità, e quindi quest’anno abbiamo avuto più bronchioliti. In quel caso, però, abbiamo prima dimostrato con i numeri che l’incremento epidemiologico era vero, poi abbiamo fatto l’ipotesi. Insomma, anche questa è un’ipotesi molto affascinante, ma rimane un’ipotesi”.
Lo stesso potrebbe supporsi anche per l’influenza? Quest’anno sembra avere uno strascico più lungo rispetto agli anni precedenti. “Che i bambini si possano ammalare è stranoto – conclude Indolfi -. Che i bambini nel periodo invernale si ammalino di più rispetto al periodo estivo è cosa certa. Che ci possa essere una minore esperienza immunologica dei bambini che hanno incontrato meno agenti infettivi, e che quindi hanno lo spettro di suscettibilità maggiore, non c’è dubbio. Non ne farei una questione in questo momento di virus, ma di comune esperienza immunologica. Però, allo stesso tempo, i bambini nel periodo invernale si sono ammalati sempre tanto e sempre, indipendentemente dal lockdown. Anche in questo caso, allora, possiamo mandare un messaggio di relativa tranquillità”.
Redazione Nurse Times
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