Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Alessandra Robert, dottoressa in Infermieristica, abilitata Fnopi, specializzata in assistenza domiciliare ai pazienti cronici, molto sensibile alle tematiche ginecologiche e dei disturbi del comportamento alimentare.
Nei reparti di ginecologia, che personalmente mi hanno fatto crescere, ho toccato con mano svariate dinamiche e situazioni contrapposte. Passavi dalla gioia delle nascite in sala parto – con queste donne sorridenti, con la gioia nel cuore, subito disponibili a farsi aiutare a gestire i primi bisogni del nascituro con una dolcezza infinita e tanta voglia di vivere – a realtà totalmente opposte appena facevi dei passi in più nello stesso reparto, dove la maternità forse veniva negata, dove certe donne si sentivano oggetto di espiazione per una cruda realtà. Sembrava di passare dai piani paradisiaci ai gironi infernali più disparati.
Un giorno, prima di accingermi a cambiarmi per l’inizio turno, noto una donna che era stata appena ricoverata. Era sedata da potenti oppioidi, ma completamente lucida. Incuriosita le chiedo: ””utto bene?”. E lei: “Dipende dalla prospettiva”.
Ancora più incuriosita, mi avvicino e noto in lei degli occhi particolarmente lucidi, di chi ha pianto da poco, colorito semipallido, capelli legati con una coda, sguardo rivolto alla finestra, quasi a compiangere la libertà e un atteggiamento quasi di rassegnazione.
Dopo aver fatto quelle quattro chiacchiere, vado a preparare il lavoro e cerco la cartella clinica di questa paziente. Ciò che leggo mi lascia di sasso: endometriosi al quarto stadio infiltrante; in attesa di collocazione di un neuro modulatore sacrale. La diagnosi mi agghiaccia.
COME SI ASSISTE UNA DONNA AFFETTA DA ENDOMETRIOSI?
Nei giorni successivi ho deciso di prestare attenzione a questa paziente così particolare, non perché fosse diversa dalle altre, ma perché spiccava per le sue infinite doti di resilienza e pazienza. Notavo davvero delle differenze sostanziali tra le partorienti, soprattutto giovani, e le donne affette da questa patologia così cruenta. E per curiosità mi rivolsi ai medici ginecologi con una domanda schietta: “I dolori acuti da endometriosi sono paragonabili a quelli del parto?” Anche la risposta del professore di Ginecologia mi turbò: “Direi che li supera”.
Decisa ad andare a fondo, cercai di capire cosa hanno in comune queste donne tra loro rispetto alle altre sofferenti, e per poterlo fare dovevo sicuramente instaurare un rapporto confidenziale. Non feci molta fatica: queste donne sono estremamente lucide e consapevoli. Pian piano Anna – questo il suo nome – si aprì e mi raccontò tante particolarità del suo vissuto.
La malattia la colpì anni fa e fu diagnosticata dopo un’odissea di circa sette anni,m nei quali era un continuo peregrinare da uno specialista all’altro. I suoi primi sintomi erano rappresentati da forti dolori addominopelvici, spesso accompagnate da forte stipsi o diarrea, curate con blandi analgesici o antidolorifici, che non sortivano alcun effetto.
Giorno per giorno ho compreso che queste donne hanno tantissimo bisogno di essere ascoltate. I sintomi che raccontano non sono da sottovalutare assolutamente. Anche uno solo tra questi, in maniera dettagliata, può far capire quanto la donna possa soffrire, ed eventualmente se è il caso di seguire uno schema medico o chirurgico conservativo o demolitivo.
Anna mi raccontò che prima di essere compresa fu spesso considerata isterica (da istero=utero). Molte di queste donne sono considerate isteriche, ma occorre prestare attenzione, perchè forse gli effetti psicologici sono solo secondari a un vissuto già di per sé tragico: convivere con dolori atroci ogni giorno, non sapere mai quale organo la malattia potrà colpire è fonte di disagio, di ansia, di non vita.
A questo occorre aggiungere la non conoscenza a fondo della malattia, e questo pone limiti nelle diagnosi, nei trattamenti e nelle terapie (si procede spesso per tentativi, purtroppo). Ogni giorno questa donna mi insegnava qualcosa di nuovo. Avrei dovuto darle io degli input, e invece era proprio lei che li dava a me.
Per esempio, una sera, dopo aver terminato le terapie serali mi chiamò per una cosa abbastanza particolare: “La sa una cosa? Io ormai non so quale organo mi colpirà e provo a fare scommesse”. Le dissi: “Capisco perfettamente il suo disagio, ma occorre seguire i protocolli della medicina e vedrà che tutto filerà liscio”. E lei: “Chissà come si vive con un neuromodulatore sacrale”.
Io con evidente disagio, cercai di cambiare discorso, non sottovalutando il suo dispiacere relativo alla sua condizione. Ho capito tanto da questa esperienza: le pazienti in genere vanno ascoltate, hanno bisogno di comunicare. Spesso ciò è terapeutico.
Diversi mesi dopo le dimissioni, Anna mi venne a trovare per un saluto. Era bella, con un sottile velo di trucco, i capelli mossi e biondi, un sorriso meraviglioso. Le avevano già collocato quel bruttissimo neuromodulatore, ma lei era lì, presente a sé stessa, senza odio per la vita, senza rabbia. Era semplicemente lei che conviveva con “lei” (l’endometriosi). Ascoltiamo i pazienti. Noi infermieri possiamo tendere la mano per colorare giornate buie.
Dott.ssa Alessandra Robert
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