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Coronavirus. Le riflessioni di Cristiano Lugli, operatore socio sanitario a Reggio Emilia

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Gentile Direttore,

Lo stato di emergenza in cui ci siamo trovati e in cui ci troviamo è qualcosa che, possiamo dirlo, non ha precedenti storici. Lungi da me il voler entrare nell’agone dell’epidemiologia o della scienza più in generale: sono un semplice operatore socio-sanitario che lavora in una Casa Residenziale per anziani in provincia di Reggio Emilia e, come tale, vorrei rimanere nel campo che più mi riguarda, ovvero quello sociale.

Il Covid-19, oltre ad avanzare rischiando di creare un collasso sanitario ed economico, investe anche la dimensione sociale, facendo a brandelli tutto ciò che è l’apparato aggregativo, emotivo e psicologico della nostra società già parecchio martoriata.

In questo preciso momento storico ci sono tante figure professionali da ringraziare, particolarmente coinvolte nell’ambito sanitario e, appunto, socio-assistenziale. Professionisti che stanno impiegando forze, energie, emozioni e testa in un delirio caotico all’interno del quale è persino difficile muoversi. Credo però, in fondo, che ciascuno di questi professionisti non senta nemmeno il bisogno di essere ringraziato giacché scegliere di lavorare in questo campo vuol dire scegliere di essere in prima linea, o quantomeno di correre il rischio di potercisi ritrovare. Etica e professionalità impongono senso del dovere e tanto, tanto cuore.

Vi è però sicuramente un’altra categoria che ora sta in prima linea, e di cui credo di potermi permettere di parlare per conoscenza diretta: tutti i familiari che ora, a causa di questa emergenza, sono costretti – per ragioni ed azioni ovviamente volte alla prevenzione e quindi al miglior bene – a non vedere i loro cari a tempo indeterminato.

Questo fenomeno avviene ora, in questo preciso istante per quanto riguarda le strutture residenziali per anziani. Le visite sono chiuse per evitare che possa avvenire il contagio all’interno di esse, dove il danno sarebbe non certo piccolo. Una decisione più che mai urgente, indispensabile e improcrastinabile, certamente. Ma ciò non vuol dire che essa non costi dolore, sacrificio, senso di lontananza e impotenza.

È un vuoto che anche noi operatori sanitari sentiamo. Lo respiriamo nelle domande che ci fanno i nostri ospiti a proposito dei loro parenti. Lo ascoltiamo nelle telefonate commosse che ci pervengono dai familiari dei nostri ospiti, che ci chiedono come sta il proprio caro e per quanto ancora non potranno vederlo. Non abbiamo risposta a questo, ma abbiamo la certezza di avere una grande responsabilità verso i nostri ospiti: quella di non farli sentire soli, di far capir loro che questa guerra, stavolta, la combatteremo noi anche per loro, come loro ne hanno combattute per noi e per i nostri figli. In contrapposizione ad un fin troppo diffuso utilitarismo, il nostro compito è anche quello di essere il collante di un tessuto sociale oggi più che mai delicato e il più delle volte trascurato.

Per questo motivo vorrei ringraziare tutti i colleghi che sono in prima linea per questo, ma anche tutti quei familiari che non senza sacrificio ora ripongono tutta la loro fiducia su di noi, trasudando lacrime, gioia ma anche tanta speranza. Affidandosi e affidando i loro cari.

Una cosa è certa: questa ben poco ordinaria circostanza ci sta insegnando che l’esistenza umana non può esser fatta solo di frenesia e consumo a breve termine. Il mondo si è fermato, ma il silenzio che ci circonda fa più rumore che mai e ci dice che l’essenza delle cose sta nelle piccole esperienze della vita quotidiana, dove tutto sembra scontato ma, calato il velo, si rivela più fondamentale che mai.

Cristiano Lugli 

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