Riportiamo un interessante articolo scritto da Luca Benci per la testata Quotidianosanità.it.
Premessa
Abbiamo registrato, sull’ipotesi contrattuale firmata a febbraio, un’insoddisfazione e opposizione che non si verificava da decenni. Bisogna risalire al 1978 e alla clamorosa nascita di un forte movimento di protesta contro un contratto degli “ospedalieri” firmato dalla allora FLO (Federazione lavoratori ospedalieri, sigla in cui confluivano Cgil, Cisl e Uil). L’insoddisfazione, allora, si manifestò con gli strumenti tipici delle lotte dei lavoratori dell’epoca: scioperi spontanei, improvvisi, “selvaggi”, manifestazioni ecc. Questa volta l’insoddisfazione si manifesta con la protesta nei social, con la proclamazione di scioperi nel tempo e altre forme.
In particolare si registra l’insoddisfazione delle categorie professionali che più in questi anni sono state sottoposte al doppio regime della crescente professionalizzazione e della crescente pressione da parte delle organizzazioni sanitarie per un loro impiego intensivistico che, spesso, ha fatto strame dei minimi diritti di riposo e pause dovuti alle forti contrazioni di organici in seguito alle politiche governative di tagli al personale che hanno bloccato i turnover.
Ci riferiamo al personale della categoria D sanitaria che lavora nei turni sulle 24 ore nei reparti, nelle sale operatorie e nei servizi di diagnostica di laboratorio e radiologia. Il riferimento è anche per coloro che sono soggetti alla disciplina della pronta disponibilità. La disciplina dell’orario di lavoro è diventata, di conseguenza, nel dibattito post firma dell’ipotesi contrattuale, centrale.
L’evoluzione del lavoro straordinario nei contratti di lavoro
Storicamente e tradizionalmente, in realtà, lo straordinario è spesso stato combattuto dalle organizzazioni sindacali in quanto strumento antisolidale nel rapporto tra occupati e disoccupati. Fino ai primi anni ottanta dello scorso secolo il limite dello straordinario per dipendente era di 100 ore annue, poi diminuito a 80 ore con il contratto del 1987 (DPR 270/87, art. 17) e portato addirittura a 50 ore, con il contratto del 1990 (DPR 384/1990, art. 10).
Dalla fine degli anni novanta il limite è stato decisamente aumentato a 180 ore annue elevabile, non a caso, per “specifiche categorie di lavoratori” in una percentuale del 5% fino a un massimo di 250 ore annuali. Il basso limite del 5% di elevazione, di un monte ore individuale di straordinario, già di per sé elevato (180 ore di straordinario riporta l’orario di lavoro a 40 ore settimanali), è indirizzato però a quelle “specifiche categorie di lavoratori” che sono soggette al lavoro intensivistico di cui parlavamo e che si vedono, non potrebbe essere altrimenti, le vere destinatarie di quella percentuale aggiuntiva, diluita in tutto il comparto, ma tutta concentrata su di loro. Queste categorie, un tempo, erano le maggiormente protette dai contratti per il riconoscimento di lavoro usurante – non in senso pensionistico – dell’attività svolta
Ci riferiamo al lontano “contratto” del 1980 (Accordo nazionale unico di lavoro 24 giugno 1980) in cui si individuarono una serie di settori “prioritari” come la radiologia, radioterapia, medicina nucleare, anestesia e rianimazione e terapia intensiva, emodialisi, laboratori di analisi e di anatomia patologica e personale turnista addetto all’assistenza sanitaria diretta ai degenti” che dovevano beneficiare di una riduzione dell’orario di lavoro – allora posto a 40 ore settimanali – attraverso “pause di mezz’ora ogni turno” fino a una riduzione a 37 ore. Le categorie più esposte al disagio quindi a 37 ore di “debito orario”, le altre a 40 ore settimanali.
In tempi più recenti anche il CCNL del 1999 prevedeva una riduzione dell’orario di lavoro per il personale “adibito a regimi di orario di lavoro articolato in più turni” a 35 ore settimanali, fermo rimanendo il limite delle 36 ore per tutti gli altri. Un tempo tutelati, oggi maggiormente colpiti dalle norme contrattuali.
L’effettuazione del lavoro straordinario è obbligatoria?
La normativa, giuridica e contrattuale, distingue da sempre tra orario “normale” – così viene chiamato nel codice civile l’orario di lavoro ordinario – posto dalla metà degli anni ottanta a trentasei ore – e lavoro straordinario. Le prestazioni di lavoro straordinario, nelle varie normative contrattuali che si sono succedute nei decenni, vengono circondate di quella che è diventata una norma costante: si legge infatti che queste prestazioni “non possono essere utilizzate come fattore ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro”.
Questa formuletta viene ripetuta, con sempre minore convinzione, anche nell’ultima ipotesi contrattuale. Con minore convinzione in quanto, il “copia e incolla” di questo disposto degli ultimi decenni, si cala in una realtà di una grave carenza del personale, di cui non si ha memoria nel passato.
A questo aspetto si aggiunge il vero salto di qualità di questa ipotesi contrattuale: l’obbligatorietà del lavoro straordinario. Riportiamo testualmente l’ultimo periodo del secondo comma dell’articolo 31: “Il lavoratore, salvo giustificati motivi di impedimento per esigenze personali e familiari, è tenuto ad effettuare il lavoro straordinario”. Questa norma non è mai stata presente nelle normative contrattuali precedenti.
Cerchiamo di capirne il motivo e di analizzarne le conseguenze. Il motivo è presto detto: dall’entrata in vigore del D.Lgs 66/2003 il lavoro straordinario “è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore” (art. 4), quanto meno in assenza di una disciplina diversa contenuta nei contratti collettivi. Per anni si è discusso se questa norma fosse o meno applicabile al pubblico impiego.
La Corte di cassazione, con una recente sentenza – sezione lavoro, 4 agosto 2014, n. 17582 – ne ha dichiarato l’applicabilità anche all’impiego pubblico stabilendo come principio di carattere generale la non obbligatorietà del lavoro straordinario anche in presenza di un ordine di servizio, laddove non regolamentata da contratto collettivo. L’ipotesi contrattuale 2018 provvede a regolamentare la materia, dichiarando obbligatoria la prestazione di lavoro straordinario.
Il dipendente è quindi, a questo punto, “tenuto” a effettuarlo salvo “giustificati motivi di impedimento per esigenze familiari e personali”. I motivi di opposizione, dunque, devono essere “giustificati”. Il contratto non fa esplicito riferimento alla forma scritta, ma è chiaro che di questa si tratta.
Quali saranno gli accettati giustificati motivi? Quale livello di dettaglio della vita privata del singolo lavoratore devono essere messi a disposizione del datore di lavoro, per la valutazione e la conseguente accettazione/non accettazione del diniego al lavoro straordinario senza conseguenze disciplinari? Accudimento figli minori, anziani, visite mediche e controlli sanitari pianificati nel tempo libero? E i motivi personali che non si vogliono divulgare perché, appunto, “personali”?
Le conseguenze del diniego al lavoro straordinario sono di carattere disciplinare che possono andare dalle sanzioni più lievi – dal rimprovero scritto fino alla sospensione di quattro ore – per l’inosservanza alle “disposizioni di servizio” fino alle assenze ingiustificate che, per le recidive compiute, possono arrivare alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a un massimo di sei mesi.
Si apre, nei fatti, uno scivoloso periodo di confutazione del tempo libero del dipendente con le immaginabili conseguenze.
Gli incerti limiti contrattuali e legislativi allo straordinario obbligatorio
Oltre al limite, soggettivo e intrusivo della vita privata del lavoratore, dei giustificati motivi la giurisprudenza ne individua, da sempre, uno generico evincibile dalla natura contrattuale del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro, e chi lo rappresenta nelle varie articolazioni organizzative, nella richiesta di lavoro straordinario è tenuto a rispettare, gli estremamente generici criteri, di “correttezza” e “ buona fede” ex artt. 1175 e 1375 codice civile. Gli altri criteri-limite sono evincibili dalle norme legislative – in parte derogate dal contratto – sull’orario di lavoro.
L’effettuazione del lavoro straordinario, quindi:
a) non può superare le ore di lavoro settimanale complessive di 48 ore (calcolo da effettuarsi in un periodo, elevato dal contratto, di sei mesi di lavoro. In altri termini è lecito un orario di lavoro di 48 ore settimanali per quasi sei mesi continuativi);
b) non può superare le dodici ore continuative;
c) deve rispettare le 11 ore di riposo giornaliero con le seguenti eccezioni: riunioni di reparto, eventi formativi e per “ragioni eccezionali”. In quest’ultimo caso le ore di mancato riposo giornaliero possono essere frazionate nei sette giorni successivi. Una sorta di incomprensibile riposo rateizzato che non rispetta la ratio del riposo giornaliero delle 11 ore.
Le modalità di effettuazione del lavoro straordinario
Le modalità di lavoro straordinario possono essere relative alla prosecuzione del lavoro già cominciato con modalità ordinarie, alla anticipazione oraria del lavoro da svolgere con modalità ordinarie, fino alla copertura di turni per assenze improvvise da svolgersi nei giorni liberi. Per il personale sanitario spesso si tratta di copertura di interi turni di lavoro e non di effettuazione di un breve orario di straordinario aggiuntivo. Impegni spesso gravosi dunque.
Al lavoro straordinario è tenuto il personale a tempo indeterminato, a tempo parziale, a tempo determinato, a contratto di somministrazione/Jobs act. Per i tempi parziali (part time) il limite di ore straordinario – tecnicamente lavoro “supplementare” – viene elevato allo stesso limite dei lavoratori a tempo pieno (quindi 180 ore elevabile a 250 per il 5% del personale).
Particolarmente problematica risulta la condizione dei precari – contratti a tempo determinato e contratti di somministrazione/Jobs act – in quanto la loro mancanza di stabilità li pone in una condizione di debolezza nei confronti del datore di lavoro. Il diniego del lavoro straordinario potrebbe risultare, nei fatti, elemento di valutazione. Ricordiamo che il già ampio limite del 20% di lavoro precario rispetto a quello stabile può essere elevato, in sede di contrattazione integrativa e che i contratti a tempo determinato vengono elevati a ben quattro anni.
Gli obblighi extracontrattuali all’effettuazione del lavoro straordinario
Per coloro che lavorano in contesti in cui l’attività lavorativa si esplica attraverso la “presa in carico” di pazienti si rinviene un obbligo dovuto alla penalistica “posizione di garanzia” con particolare riferimento alla posizione di protezione. Si tratta dell’obbligo di preservare da pericoli soggetti che non sono in grado di tutelarsi da soli (necessitanti di cura e assistenza) che grava su tutti i professionisti sanitari che hanno in carico pazienti. La “posizione di protezione” cessa solo con la presa in carico da parte di altro professionista che si realizza minimamente, per prassi, con il c.d. “cambio a vista”.
In altri termini, senza la trasmissione della presa in carico ad altri professionisti, non vi è la possibilità di lasciare il servizio anche a orario di lavoro scaduto. Questo anche laddove si ravvisi una grave inadempienza da parte del datore di lavoro. Da parte del lavoratore, quindi, prosegue la prestazione lavorativa in modo obbligatorio – o più propriamente “coatto” – fino al momento in cui si realizzano le condizioni di una trasmissione della posizione di protezione.
Più sfumato, ma sempre con rilievi penalistici, il caso in cui l’esercizio professionale venga esercitato in contesti caratterizzati dall’alternanza di periodi di attesa e di operatività come ad esempio una radiologia di guardia, un laboratorio di guardia. In questo caso, pur avendo adempiuto agli obblighi contrattuali, si palesa il rischio dell’interruzione di pubblico servizio ex art. 340 codice penale. Ripetiamo pur in presenza di totale adempimento degli obblighi di orario contrattuali.
La forma della richiesta di lavoro straordinario
il contratto di lavoro non disciplina la modalità di imposizione del lavoro straordinario in quanto l’unica norma rinvenibile è relativa al rischio dell’abuso del lavoro straordinario stesso. Ecco allora che specifica la prestazione di lavoro straordinario “è espressamente autorizzata dal dirigente o del responsabile sulla base delle esigenze organizzative e di servizio”. E’ evidente non che stiamo trattando di questo aspetto bensì di quale debba essere l’atto formale di imposizione dello straordinario.
Usualmente, nelle prassi delle organizzazioni sanitarie, si manifesta attraverso il c.d. “ordine di servizio” espressione con la quale si intende una disposizione di carattere autoritativo destinata a incidere nell’organizzazione di lavoro. Tale modalità rimane in virtù, quanto meno formalmente, del carattere eccezionale che riveste l’effettuazione di lavoro straordinario ai sensi del primo comma dell’articolo 31 dell’ipotesi contrattuale. Formalmente in quanto il combinato disposto dovuto all’introduzione dell’obbligatorietà dello straordinario obbligatorio e la grave carenza di personale ne depotenziano la necessità.
L’errore dell’introduzione dello straordinario obbligatorio
Quanto firmato nell’ipotesi contrattuale sulla disciplina del lavoro straordinario è un grave errore. Una politica che realizza un aumento surrettizio dell’orario di lavoro nei confronti del personale del Servizio sanitario nazionale, fortemente invecchiato, sfibrato da decenni continuativi di turni, minato nel fisico e gravato da prescrizioni e limitazioni del medico competente non può essere una risposta alla grave carenza di personale.
Gli allarmi sulla mancanza di personale sanitario nelle strutture è ormai quotidiana e il contratto di lavoro decide un impiego intensivistico – un sindacalista d’antan parlerebbe di sfruttamento – del personale presente non è certo garanzia di un servizio di qualità, che permette la contemporanea sicurezza dei pazienti e degli operatori posti a tutela dei pazienti. Rappresenta una complessiva sconfitta del sistema e di tutti i suoi attori – personale sanitario, aziende sanitarie, persone assistite – in nome di un contratto che non investe sul futuro ma sfrutta un ormai incerto presente.
Infine una notazione doverosa: forse sarebbe anche il caso di evitare che gli accordi sindacali siano firmati prima di consultazioni referendarie – come l’accordo del 30 novembre 2016 firmato prima del referendum costituzionale – o prima delle elezioni politiche – come l’ipotesi contrattuale in questione firmata il 23 febbraio a pochi giorni di distanza dalle elezioni 2018 – e non solo per la scarsa qualità e portata politica degli accordi che ha portato decisamente sfortuna ai governi che le hanno siglate. Tornare al vecchio cliché di un sindacato come “cinghia di trasmissione” – copyright Giuseppe Di Vittorio – del sistema politico, o di parte di esso, non rende onore al ruolo che il sindacato deve avere nella società contemporanea.
Luca Benci (giurista)
Fonte: www.quotidianosanita.it
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