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Caso Mastrogiovanni, le scuse di un infermiere: “Abbiamo commesso una barbarie”

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Caso Mastrogiovanni, le scuse di un infermiere: “Abbiamo commesso una barbarie”
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Nicola Oricchio, oggi in pensione, ha scritto una lettera alla sorella e al cognato dell’uomo sottoposto a Tso e morto di stenti all’ospedale di Vallo della Lucania dieci anni fa.

“Abbiamo commesso una barbarie, non abbiamo capito la richiesta di aiuto di Franco, strappandolo al vostro affetto. Vi esprimo la mia vicinanza”. Sono passati dieci anni dalla morte di Franco Mastrogiovanni, il maestro elementare di Castelnuovo Cilento (Salerno) sottoposto nel 2009 a trattamento sanitario obbligatorio nel reparto di Psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania e deceduto dopo essere rimasto legato mani e piedi a un letto per più di 80 ore, senza essere alimentato e idratato. Per quella tragedia la Corte di Cassazione ha condannato sei medici e undici infermieri a pene dai quindici ai sette mesi. Pene sospese perché inferiori ai due anni.

Nicola Oricchio, uno degli infermieri, oggi in pensione, che ebbe in cura l’uomo durante il periodo di ricovero ha scritto una lunga lettera pubblicata dal quotidiano Il Mattino e indirizzata a Caterina Mastrogiovanni, sorella di Franco, e al marito Vincenzo Serra, per fare mea culpa e chiedere scusa. “Nel corso di questo decennio – si legge – voi Famiglia, il Comitato per Francesco Mastrogiovanni e in particolare vostra figlia Grazia, esempio di donna combattiva e tenace, vi siete battuti in tutte le sedi possibili affinché si affermassero la verità e la giustizia ed evitare che simili tragedie potessero ripetersi in futuro. Invece Francesco è morto invanoperché ancora oggi nei reparti di psichiatria degli ospedali italiani gli utenti ricoverati in trattamento sanitario obbligatorio continuano a morire a causa della contenzione meccanica”.

L’infermiere ricorda così il calvario del maestro elementare: “Sono passati dieci anni da quel 4 agosto 2009 ma per me quel drammatico evento è come se fosse successo ieri. Rivedo le immagini fissate nella mia mente della interminabile tortura di Francesco, perché di questo si è trattato, e non di un trattamento assimilabile alla tortura e di questo mi scuso con voi. Durante quei giorni noi mettemmo in atto una barbarie che durò dalle ore 12:30 del 31 luglio fino al 4 agosto durante la quale furono commessi una catena di errori ed una serie ininterrotta di reati gravissimi nei quali prevalsero l’inerzia, la sciatteria e il lassismo. Fu sconfitta l’umanità della parola rinunciando al compito di una psichiatria umana e civile. Così concorremmo a uccidere Mastrogiovanni e io mi ritrovai a essere un omicida”.

Scuse accettate o scuse tardive? Risponde Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni: “Ci sono voluti tanti anni, ma per la prima volta ho sentito un po’ di umanità in questa storia che ancora mi sembra assurda. Ho incontrato l’infermiere Oricchio, oggi in pensione, e nei suoi occhi ho visto tormento e pentimento. Noi non abbiamo mai avuto uno spirito vendicativo, volevamo che la morte di mio zio servisse per evitarne altre. Volevamo restituirgli la dignità che gli era stata tolta. Non è stato facile incontrarlo e ascoltare il racconto di quelle ore e non riesco a descrivere a parole quello che ho provato. Mi è sembrato sincero, ora mi aspetterei le scuse anche degli altri. Le scuse di chi in questi anni ha provato a negare l’evidenza in modo vergognoso. Farebbe bene soprattutto alla loro coscienza perché mio zio ormai è morto e il dolore di questi anni non si potrà mai cancellare”

Ma torniamo indietro di dieci anni. È il 30 luglio 2009. Francesco Mastrogiovanni, Franco per gli amici, si trova in macchina e percorre l’isola pedonale di Acciaroli (Pollica), nel salernitano. I vigili urbani avvertono il sindaco, riferendo che il maestro elementare avrebbe percorso la zona ad alta velocità e provocando incidenti: per lui viene ordinato il Tso. Il giorno dopo, 31 luglio, l’insegnante 58enne trascorre il suo ultimo giorno da uomo libero in fuga dai vigili urbani, dai carabinieri e dalla guardia costiera. Su di lui pende una richiesta di trattamento sanitario obbligatorio, il terzo nel giro di pochi anni: a firmarla è Angelo Vassallo, il sindaco-pescatore di Pollica che di lì a un anno sarà ucciso per motivi ancora oggi misteriosi.

Il maestro viene avvistato in un campeggio a San Mauro Cilento, dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare, dove resterà per due ore accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell’ordine e da una decina di addetti dell’Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso, confermando il provvedimento del sindaco di Pollica (anche se il maestro in quel momento si trova in un altro comune).

Prima di salire sull’ambulanza, Mastrogiovanni dice: “Non portatemi all’ospedale di Vallo della Lucania: lì mi ammazzano”. Invece lo portano proprio lì, nel reparto di Psichiatria, dove circa 87 ore dopo esce su una barella metallica che lo conduce all’obitorio. Di fatto, Franco morì di fame e di sete, legato a un letto d’ospedale. “Mio zio è rimasto legato a quel letto per più di 87 ore – racconta la nipote Grazia Serra –, perché lo hanno tenuto così per un po’ anche da morto. Non lo hanno alimentato. Il personale del reparto lasciava il vassoio col cibo lì accanto al letto, ma lui, essendo legato, non poteva muoversi. Dopo qualche ora, gli toglievano quel vassoio, anziché aiutarlo a mangiare”.

Redazione Nurse Times

Fonte: Today

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