Sono un’infermiera e lavoro in un ospedale pubblico, reparto medicina generale con 40 posti letto sempre occupati, con una carenza endemica di Oss e assenza totale nei turni notturni.
Vorrei rivolgermi ai colleghi che io chiamo “vocazionisti“, a quelli, per intenderci, che ritengono sia possibile creare un rapporto empatico coi pazienti prevalentemente durante l’igiene.
Il fatto di dovermi obbligatoriamente occupare di atti di competenza di altri operatori preposti implica necessariamente la contrazione del tempo che posso dedicare a quello che è il mio mandato professionale che, sia chiaro, non si esaurisce con l’espletamento di manovre tecniche quali la somministrazione della terapia, l’esecuzione di prelievi ematici, la stesura di piani assistenziali, la compilazione di briefing e consegna e via discorrendo.
Io ritengo di avere il diritto e il dovere di avere il tempo di parlare coi miei pazienti, di guardarli attentamente, uno per uno e per tutto il tempo di cui individualmente necessitano per poter instaurare un rapporto fiduciario che tutti sappiamo bene essere fondamentale dal punto di vista terapeutico.
Devo poter osservare l’eloquio, lo sguardo, tutta la comunicazione verbale e non verbale per poter valutare ogni minima variazione dello stato di coscienza, orientamento, aderenza alla realtà rispetto al giorno prima o, in casi particolari, rispetto anche a solo due ore prima.
Devo poter ascoltare le preoccupazioni e i motivi di ansia che sono differenti per ogni singolo paziente perché questo mi dà la possibilità di valutare l’intervento terapeutico più adeguato.
Non sempre, nel paziente agitato, un sedativo o la contenzione sono le scelte migliori, anzi.
Nella maggioranza dei casi l’ascolto e la rassicurazione risolvono in gran parte una situazione che rischia di andare fuori controllo.
Un paziente è per definizione in condizione di fragilità ed è assolutamente fondamentale che possa fidarsi dell’infermiere che se ne prende cura, questo può realizzarsi solo se gli viene permesso di entrare in contatto verbale vero e reale (e non superficiale come accade nella stragrande maggioranza delle volte) con il professionista con cui si rapporta.
Tutto questo diventa impossibile se siamo costretti a correre disperatamente per cercare di fare tutto -e generalmente non riuscire a fare niente al meglio- nel tentativo di far stare nelle 7 ore di turno l’ordinario, l’emergenza e la compensazione della carenza di personale subalterno.
L’infermiere non è e non deve essere questo, un velocista che tenta di comprimere tutto nelle ore del turno per non lasciare ulteriore lavoro sulle spalle di chi gli darà il cambio e che dovrà correre tanto quanto lui e forse di più.
Scusate ma io a questo gioco al massacro non voglio partecipare perché le prime e più pesanti conseguenze le subisce il paziente che dovrebbe essere al centro di tutto il processo assistenziale ma, per logiche economiche di risparmio e profitto, è stato, oramai, posto al margine.
Un’Infermiera
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