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Cancro mammario, scoperto in antichi resti umani un virus che potrebbe causarlo

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Cancro mammario, scoperto in antichi resti umani un virus che potrebbe causarlo
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La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista americana Aging.

Un virus finora sconosciuto e possibile causa del cancro mammario umano è stato identificato in alcuni resti umani dell’età del Rame e del periodo rinascimentale. La notizia arriva da uno studio pubblicato sulla rivista americana Aging, ideato e condotto da Generoso Bevilacqua, già professore di Anatomia patologica dell’Università di Pisa insignito dell’Ordine del Cherubino. La ricerca ha analizzato i resti di 36 individui vissuti fra il 2.700 a.C. e il XVII secolo d.C., trovando in sei di essi tracce molecolari di un virus umano sconosciuto, un betaretrovirus molto simile all’MMTV (Mouse Mammary Tumor Virus), che è l’agente causale dei tumori mammari del topo.

“Convinto dell’eziologia virale della malattia umana, ma al contempo convinto che il virus del topo non potesse passare alla donna – racconta Bevilacqua –, mi sono persuaso dell’esistenza di un virus umano simile e ho dedicato gli ultimi quindici anni della mia attività di ricerca a cercare di individuarlo”.

Una prima conferma dell’esistenza del virus è arrivata da uno studio che Bevilacqua ha condotto cinque anni fa sulla saliva umana, ovvero uno dei mezzi più comuni di trasmissione di malattie infettive. Un betaretrovirus simile al MMTV è stato identificato nel 10% di donne e uomini sani e nel 60% delle pazienti con cancro mammario.

“La lista dei tumori umani a origine virale è alquanto lunga: tumori delle alte vie respiratorie, dell’esofago, del fegato, forse della prostata, e anche linfomi e leucemie – sottolinea Bevilacqua –. Per questo l’idea che anche i tumori della mammella possano farne parte non è affatto peregrina anche perché ad oggi non vi sono solide ipotesi alternative”.

Il passo successivo è stato quindi di ipotizzare che, se il virus esiste nell’uomo moderno, doveva già esserci nei tempi antichi. Da qui l’idea di cercarlo nel tartaro dei denti, che è un prodotto della saliva e che ha una composizione tale da preservare in modo ottimale i microorganismi presenti nella bocca e i loro acidi nucleici in particolare.

“Lo studio pubblicato su Aging suggerisce inoltre in qual modo l’MMTV murino abbia potuto trasferirsi nella specie umana diventando un betaretrovirus umano – conclude Bevilacqua –. È ormai noto che i virus animali possono passare all’uomo mediante un ‘salto di specie’, che in genere si verifica in ambienti e periodi di stretta coabitazione fra animali e persone, come all’inizio della diffusione dell’agricoltura avvenuta circa 10mila anni fa nella cosiddetta “mezzaluna fertile”, il vasto territorio che va dalla Mesopotamia alla valle e al delta del Nilo. Qui  l’abbondanza di vegetali rappresentò un ambiente particolarmente favorevole per i topi, e non solo, dando inizio alla loro coabitazione con l’uomo, in un ambiente di forte promiscuità”.

Il professor Bevilacqua, attualmente docente nel dottorato di ricerca in Scienze cliniche e traslazionali nell’Università di Pisa, nonché direttore della Medicina di Laboratorio della Casa di Cura San Rossore, ha cominciato a studiare il modello di cancro mammario del topo indotto dall’MMTV 45 anni fa come allievo di Francesco Squartini, professore di Anatomia patologica a Pisa, uno dei grandi esperti nello studio di questa malattia.

Per lo studio pubblicato su Aging si è avvalso, per la raccolta dei 36 crani antichi, dell’aiuto di Gino Fornaciari, già professore di Storia della medicina nell’Ateneo pisano e uno dei padri della Paleopatologia, e di Pasquale Bandiera, dell’Università di Sassari. Al fine di evitare qualsiasi possibilità di contaminazione con Dna del topo sono stati condotti meticolosi controlli, e al fine di escludere la presenza di sequenze betavirali endogene umane (HERVs) è stato condotto un accuratissimo studio di bioinformatica grazie alle competenze specifiche di Enzo Tramontano, professore di Virologia all’Università di Cagliari, e della sua collaboratrice Nicole Grandi.

Lo studio dei resti antichi si è avvalso anche del supporto di Giuseppe Naccarato, Valentina Giuffra, Antonio Fornaciari e Cristian Scatena, del Dipartimento di Ricerca traslazionale e nuove tecnologie d’Università di Pisa. Gli studi molecolari sono stati svolti con la collaborazione di Chiara Maria Mazzanti, Francesca Lessi, e Paolo Aretini, della Fondazione Pisana per la Scienza, e di Prospero Civita, del Dipartimento di Ricerca traslazionale dell’Ateno pisano.

La scoperta del primo betaretrovirus umano, candidato a essere la causa del cancro della mammella, apre  alla possibilità di un vaccino, come è accaduto per l’Hpv e per il cancro al collo dell’utero.

Redazione Nurse Times

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