Insieme al dirigente della società scientifica abbiamo sviscerato il tema del ruolo svolto dall’infermiere nel campo dell’emergenza preospeadaliera.
In occasione del primo congresso interregionale dal titolo “Infermieri di emergenza preospedaliera – Scenari operativi e prospettive future”, organizzato a Bari dalla Siiet (Società italiana infermieri emergenza territoriale) nelle giornate di venerdì 11 e sabato 12 novembre, abbiamo avvicinato Luigi Cristiano Calò, vicepresidente della società scientifica e infermire specialista del 118 di Pesaro.
Dottor Calò, cominciamo col ricordare gli obiettivi della Siiet a livello nazionale.
“Come società scientifica a valenza nazionale e nel ruolo privilegiato di consulente accreditata dal ministero per la componente scientifica, Siiet ha lo scopo primario di diffondere la cultura e la formazione in tema di emergenza urgenza. L’evento principale è il congresso nazionale che si terrà a Firenze nel mese di marzo, ma intanto ci è parso doveroso decentrare questa attività, portando anche al Meridione un nostro evento. Ciò nell’ottica della diffusione di contenuti trasversali, spendibili da Nord a Sud, con l’augurio che la nuova legislatura possa riformare la normativa nazionale a favore di tutte quelle regioni che hanno bisogno di stabilizzare i contenuti in materia e la conseguente risposta da erogare ai cittadini”.
Durante questo congresso barese si è parlato molto di ricerca. La Siiet fa ricerca e pubblica i risultati. Quali sono le ultime novità?
“A livello internazionale vi è una gran quantità di studi sul tema dell’emergenza. L’Italia, dal canto suo, è un Paese un po’ particolare, perché non ha un sistema paragonabile ad altri. Stiamo pertanto cercando di colmare questo gap, analizzando le nostre peculiarità, positive e negative. La formazione e la pubblicazione di studi per verificare se stiamo lavorando bene sono quindi per noi una priotità”.
Quanto è importante la presenza di infermieri formati, che abbiano la possibilità di agire laddove si verificano patologie tempo-dipendenti?
“Nel percorso degli ultimi trent’anni l’infermiere ha avuto un’evoluzione importante. Oggi rappresenta un po’ il jolly da poter spendere in tante situazioni. Ha infatti la capacità di intervenire in prima battuta sulle patologie tempo-dipendenti e ha un ampio raggio di autonomie, che purtroppo, però, non sono ancora standardizzate. Il problema non è se l’infermiere sia autonomo (su questo la normativa parla chiaro), bensì la mancanza di strumenti riconosciuti per poter lavorare tutti allo stesso modo. L’autonomia regionale ci ha permesso di evolverci. Regioni come Toscana, Emilia Romagna e Lombardia, per fare qualche esempio, sono infatti cresciute molto. Ciò dimostra che il sistema è performante e dispone di una componente infermieristica di valore, capace di gestire in autonomia gran parte delle emergenze. Di contro, questa innovazione non è stata ancora abbracciata da tutte le regioni, proprio perché ognuno poteva scegliere per sè. Secondo me è finora mancata una linea comune. Sarebbe stato opportuno, a livello di Stato-Regioni, confrontarsi per stabilire quale sia il modello con le prestazioni migliori, e quindi quello da seguire. In definitiva ci sono regioni che continuano a investire e a rinnovare le competenze, mentre altre aspettano probabilmente un segnale dalla nuova legislatura”.
Gli infermieri dell’emergenza urgenza avrebbero dunque la possibilità di agire in autonomia. Qual’è a tal proposito la ricetta della Siiet?
“In linea di massima, stiamo cercando di sensibilizzare le università, perché una certificazione universitaria ha chiaramente una valenza superiore. A oggi esistono altri due tipi di certificazioni, che però non sono particolarmente diffuse, probabilmente a causa di un’informazione confusa. Come Siiet, dunque, stiamo cercando di lavorare su due fronti: uno è appunto quello universitario, con un’apposita normativa nazionale; l’altro è quello degli enti locali, quindi delle amministrazioni regionali. Questo perché ci siamo resi conto che prendere un servizio, seppur performante, e trapiantarlo così com’è, cioè senza alcun adattamento, a un’altra regione è sbagliato, pericoloso e spesso male accettato. Pertanto è opportuno andare per gradi”.
Redazione Nurse Times
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