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Assistere bambini complessi mi completa…il racconto di Ambra, infermiera a Roma

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Assistere bambini complessi mi completa...il racconto di Ambra, infermiera a Roma 2
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Intervista ad Ambra Ortolani, collega di Roma libera professionista (non per scelta) che ci racconta il suo percorso pieno di difficoltà e soprattutto la sua esperienza nel progetto “Home in Hospital” a contatto con bambini ad elevata complessità assistenziale.

In breve… Chi è Ambra?

Ambra è una ragazza di 26 anni determinata, solare e molto ironica. A primo impatto potrebbe sembrare introversa, fredda e poco disposta a dare confidenza. Ma basta conoscerla un po’ più a fondo per capire che in realtà è una ragazza semplicissima e che allo stesso tempo ha carattere da vendere.

E l’infermiera Ambra? Parlaci in breve del tuo percorso.

Mi sono laureata nel 2012 e all’inizio per me non è stato semplice: facevo seria fatica infatti a non “vivere” la sofferenza dei miei assistiti. Con il tempo, però, ho dovuto per forza di cose imparare ad “ascoltare” senza farmi travolgere dalle varie situazioni. E ad usare l’empatia con più attenzione.

Ho iniziato in un reparto di neurochirurgia e ho dato sin da subito tutta me stessa, dimostrandomi sempre disponibile, con tanta voglia di lavorare e di imparare. Ma non è bastato: alla scadenza del periodo estivo, per il quale ero stata selezionata, è arrivato il licenziamento. Sono stata poi 8 lunghissimi mesi senza lavoro in cui ho inviato e portato Curricula ovunque, senza ricevere mai risposta. Dopodiché, finalmente, sono stata contattata da una cooperativa di Roma per lavorare con bambini complessi, connessi a dei macchinari per poter sopravvivere. Sono rimasta un po’ spiazzata da quella proposta (non avevo esperienze di quel genere), ma ho deciso comunque di mettermi in gioco e di provare. Ho aperto così la Partita Iva (non c’erano alternative) e ho iniziato questo che reputo un fantastico cammino. Che ancora percorro. Con entusiasmo.

Dopo aver iniziato coi bimbi, sono stata contattata anche da un’altra realtà: una clinica privata, che mi ha proposto di lavorare presso un reparto di Medicina che tratta in particolar modo patologie cardiache e respiratorie. Ho accettato. Nonostante le condizioni lavorative… al limite.

Da poco ho iniziato anche a lavorare a domicilio con pazienti malati di SLA e devo dire che, anche questa, mi si prospetta come un’esperienza interessante e professionalmente gratificante.

Tra le tue esperienze, quale reputi professionalmente più appagante?

Sicuramente quella coi bambini ad alta complessità assistenziale. È un’esperienza che mi completa. A 360 gradi. Si tratta di un progetto chiamato “Home in Hospital”, nato nel 2006 e che si trova presso l’Ospedale Grassi di Ostia (Roma). È una sorta di vera “casa in ospedale”, in cui è attivo un servizio di assistenza domiciliare h24 per bambini affetti da disabilità gravissime per i quali le cure palliative pediatriche sono l’unico trattamento possibile. I piccoli pazienti non risultano ricoverati, bensì assistiti come se fossero all’interno del proprio domicilio, con un notevole abbattimento dei costi a carico della regione; inoltre, la famiglia è alleggerita nella gestione del paziente e del carico emotivo che ne risulta. I risultati di questo nuovo modello assistenziale ad oggi sono sorprendenti: il numero dei ricoveri in terapia intensiva dei bimbi ospitati è drasticamente diminuito! Mi sento parte di qualcosa di importante. Visitate il sito https://www.piccoliguerrieri.it/!

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Descrivici questa tua attività con i bambini. Gli aspetti più belli, quelli più difficili e le emozioni che ne derivano.

Quando ho iniziato a seguire bambini complessi, non lo nego, mi ci è voluto del tempo prima di riuscire  ad essere del tutto me stessa. Sono tracheostomizzati, portatori di PEG e connessi a ventilatori meccanici per 24 ore e gestirli mi sembrava molto complicato: avevo paura anche solo di sfiorarlo, il ventilatore meccanico, in quanto temevo di scollegare qualcosa di importante. Avevo persino paura di cambiare i pannolini: questi bimbi non piangono e io vivevo nel terrore di fargli del male senza rendermene conto. Poi però, col passare del tempo, mi sono decisamente “ammorbidita”, ambientata, ho imparato a gestirli ed ho capito che in realtà hanno diversi modi per comunicare.

Soprattutto all’inizio, questo tipo di assistenza non è affatto semplice: i genitori, coi loro figli, ti affidano un pezzo del loro cuore; devi quindi dimostrargli che si possono fidare ciecamente di te, devi essere sicuro e capace così da farli stare tranquilli. Come? Con competenza, professionalità, sicurezza, ma anche umanità e amore per il tuo lavoro. La creazione di questa relazione d’aiuto è forse l’aspetto più complicato di questa formula assistenziale. E necessita di tempo.

Lavorare con bambini complessi ti apre il cuore e la mente su tante realtà che non pensavi mai esistessero. Giorno per giorno, li vedi crescere insieme a te, li vedi modificarsi nel loro fisico. Quelli che gestisco io sono affetti da diverse patologie congenite e per cui non c’è cura; l’unica cosa che posso fare è impegnarmi per rendere la loro vita dignitosa.

Credo che per chi assiste dei bambini disabili gravissimi, una caratteristica fondamentale debba essere quella di essere minuziosi, attenti ai dettagli. Perché se alcune cose per noi possono sembrare banali, per un bambino che non potrà mai camminare o sorridere probabilmente non lo sono. Mi piace ad esempio abbinare i colori dei vestitini con i calzini… mi piace vedere i miei bimbi con i capelli sempre puliti e in ordine, magari creando una bella coda o una treccia per le femminucce… e una bella cresta per i maschietti. Mi piace passare vicino al loro letto e sentire che profumano. Ecco, questo è il modo in cui mi sento molto vicina a loro. Al di là della loro complessità. Al di là della loro condizione e del tipo di assistenza “tecnica” di cui hanno bisogno. Questo è il mio modo di donargli aiuto, professionalità e… Perché no? Amore.

Nella tua vita da infermiera… Hai avuto invece qualche esperienza particolarmente avvilente? Sei mai stata demansionata o sfruttata?

Sicuramente sì. I 3 anni in quel reparto di Medicina sono stati complicati. Ero obbligata ad essere una sorta di tuttofare: OSS, ausiliaria e infermiera. Lì non importava chi fossi (un’infermiera!) o cosa sapessi fare meglio: bisognava fare tutto. Poi, come veniva fatto, non interessava a nessuno perché la tua “bravura” era considerata direttamente proporzionale alle tue capacità di ‘corridore’… Bisognava correre, correre e non fermarsi mai. In barba alla professionalità. In barba alla qualità dell’assistenza. A fine turno dovevi aver distribuito il vitto, pulito le spondine dei letti sporche, aver effettuato il giro letti, somministrato tutte le terapie prescritte e risposto a tutti i campanelli che suonavano ininterrottamente in tempi record. Dovevi essere una sorta di macchina, in una strampalata catena di montaggio che prevedeva la tua presenza in più posti simultaneamente. Cosa impossibile. E se eri così sfortunato (e lo eri praticamente sempre) da dover far fronte ad un imprevisto… Eri costretto a restare al lavoro finché non lo avevi risolto. Protestare era praticamente inutile, anche perché la filosofia aziendale che va per la maggiore di questi tempi è: “se non ti sta bene scansati e fai passare le persone in attesa che il tuo posto si liberi, abbiamo un mare di Curricula”…

Grazie a questa esperienza, che mi ha comunque insegnato tanto a livello tecnico/pratico, ho capito che quello, qualsiasi cosa sia… Non è fare l’infermiera.

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Sei una libera professionista. Da quanto tempo? Lo sei per scelta?

Sono una libera professionista da tre anni, ormai. E sicuramente non per mia scelta. Purtroppo questo è l’unico modo che ti permette di lavorare, il contratto ormai non te lo offre più nessuno e se vuoi rimanere in Italia devi rimboccarti le maniche e aprire la Partita Iva.

Cosa ti aspetti dal futuro per te e per la nostra professione?

Intanto ho ripreso a studiare: ho iniziato il Master in Assistenza Infermieristica Pediatrica, scelta fortemente influenzata dalla mia esperienza a contatto con bambini complessi.

Non voglio fermarmi, insomma. E non voglio nemmeno trasferirmi all’estero, la mia vita è qui e sto facendo di tutto per costruirmela nel migliore dei modi. Spero un giorno nella possibilità di un contratto che mi di stabilità: ho dei principi ben saldi e, anche se sono ancor molto giovane, voglio crearmi una famiglia e costruirmi un futuro solido. Ma un contratto di lavoro è l’unica strada percorribile per realizzare tutto questo. La partita iva purtroppo non ti da nessuna stabilità: se stai male (e capita) non puoi lavorare e se fai meno turni, avrai meno soldi alla fine del mese. Se ti assenti per maternità, poi… ti sostituiscono subito con chi è disponibile e al tuo ritorno ritrovare il tuo posto di lavoro è pura utopia.

Spero vivamente che molto presto le cose cambino, anche perché negli ospedali c’è molta carenza di infermieri e l’unica cosa che non si dovrebbe mai fare, in un paese civile… è risparmiare sulla sanità.

In bocca al lupo, cara Ambra.

Alessio Biondino

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