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Manovra 2026, promessi 2 miliardi aggiuntivi per la sanità: un miraggio per medici e infermieri?

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Il seguente articolo, pubblicato su QuiFinanza, sottolinea il rischio che i fondi aggiuntivi stanziati per la sanità con la Legge di Bilancio 2026 non si traducano in aumenti stipendiali e nuove assunzioni, trattandosi di fondi in gran parte vincolati per altre voci spesa. Per rilanciare il Ssn servirebbero risorse molto più elevate.

Quando il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha annunciato che nella Manovra 2026 sarebbero stati stanziati 2 miliardi di euro aggiuntivi per la sanità, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Con un Servizio sanitario nazionale in evidente sofferenza, la promessa appariva come un segnale di inversione di rotta. Tuttavia, analizzando nel dettaglio i conti, appare chiaro che questi soldi non finiranno nelle buste paga di medici e infermieri, né saranno impiegati per nuove assunzioni o per rafforzare le dotazioni organiche degli ospedali.

Di fatto, si tratta di risorse che rischiano di essere interamente assorbite da altre voci di spesa vincolate. Secondo le prime stime, elaborate dalle Regioni, la destinazione di queste risorse è già in gran parte segnata. Tra i 700 e i 900 milioni dovranno coprire attività già avviate con il Pnrr, che dal 2026 non riceveranno più finanziamenti europei. È il caso, ad esempio, dell’assistenza domiciliare. Un altro mezzo miliardo sarà assorbito da capitoli specifici come la prevenzione, la “farmacia dei servizi” e altre misure già programmate. Anche in questo caso non si tratta di investimenti discrezionali: sono fondi vincolati, obbligatori, che non lasciano margini di scelta.

Quindi, solo la parte residua, stimata intorno ai 500 milioni, potrebbe arrivare al personale sanitario. Ma non per aumenti strutturali: trattandosi di fondi insufficienti a incidere sui contratti nazionali, la soluzione individuata è quella già sperimentata negli anni passati, cioè l’aumento delle tariffe per l’attività aggiuntiva.

A rendere il quadro ancora più critico è la gestione dei fondi. Nonostante il dibattito sull’autonomia differenziata, se tutti i fondi sono vincolati a destinazioni specifiche e decise a livello centrale, le Regioni non hanno la libertà di utilizzare le risorse per i propri bisogni specifici, come l’apertura di nuovi reparti o l’assunzione di personale extra, se questi non rientrano nelle categorie predefinite. Un approccio che limita ulteriormente la capacità di risposta del sistema sanitario a livello locale.

Come sottolineato da numerosi esperti, il rapporto tra la spesa sanitaria e il prodotto interno lordo (Pil) in Italia si attesta intorno al 6,4%, una percentuale bassa e insufficiente se confrontata con il fabbisogno reale e con gli investimenti di altri Paesi europei avanzati. Francia e Germania superano stabilmente il 7%, alcuni Paesi arrivano persino all’8%. Questo divario significa che, in termini pro capite, l’Italia investe meno per ogni cittadino. E questo deficit si traduce in una costante mancanza di fondi per l’assunzione di personale, l’acquisto di nuove tecnologie e l’ammodernamento delle strutture.

Una spesa così contenuta non permette al sistema di funzionare in modo efficiente. Ne conseguono problemi che i cittadini vivono ogni giorno, come le lunghe liste d’attesa per visite ed esami, la carenza di personale medico e infermieristico e il progressivo invecchiamento delle strutture sanitarie. Il basso investimento per la sanità rende difficile garantire un servizio tempestivo e di alta qualità a tutti, e gli osservatori più autorevoli concordano sul fatto che, senza raggiungere almeno il 7%, non è possibile garantire un sistema pubblico competitivo e sostenibile.

Il problema è quindi strutturale. I 4 miliardi aggiuntivi già previsti dalla precedente manovra e i 2 miliardi annunciati oggi non modificano la cornice complessiva, poiché con questa mossa il Fondo sanitario nazionale arriverà a 140 miliardi, cifra che può sembrare imponente, ma che, se rapportata al fabbisogno reale, non basta neppure a coprire le spese correnti, figuriamoci a rilanciare il settore.

Secondo un recente rapporto dell’Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano (OASI) della SDA Bocconi, per esempio, per raggiungere i livelli di investimento in sanità degli altri Paesi europei, all’Italia servirebbero almeno 40 miliardi di euro in più. Questa cifra, che sembra enorme, servirebbe a coprire il divario accumulato nel tempo e a finanziare gli investimenti strutturali necessari.

I circa 500 milioni di euro destinati a medici e infermieri, a livello nazionale, non solo equivalgono a poco più di una goccia nel mare, ma non saranno utilizzati per incrementare in modo strutturale gli stipendi o per nuove assunzioni. Quello che sappiamo è che saranno utilizzati per straordinari pagati a 100 euro l’ora per i medici e 50 per gli infermieri.

Le associazioni di categoria e i sindacati hanno criticato duramente questo approccio, sostenendo che un compenso extra per gli straordinari non può risolvere il problema del personale insufficiente né adeguare gli stipendi di base, che restano tra i più bassi d’Europa. Questa strategia si basa sull’idea di chiedere a chi è già esausto di lavorare di più, anziché risolvere alla radice la mancanza di professionisti e rendere il settore più attraente e competitivo a livello europeo.

Redazione Nurse Times

Fonte: QuiFinanza

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