Oggi, 10 settembre 2025, l’Università Tor Vergata di Roma conferisce a Paola Cortellesi un dottorato di ricerca honoris causa in Scienze infermieristiche e sanità pubblica per celebrare valori di cura, prevenzione, dignità e sostegno alle fragilità.
Un gesto che ha suscitato reazioni contrastanti: da un lato, l’elogio alla sua capacità di usare lingua, arte e visibilità per diffondere messaggi di rilevanza sociale; dall’altro, una riflessione critica sulla validità e sul significato di un titolo accademico conferito in virtù del riconoscimento pubblico.
L’annuncio del dottorato honoris causa a Paola Cortellesi ha acceso un dibattito che va ben oltre il singolo riconoscimento. C’è chi lo ha accolto come un gesto lungimirante: un’università che apre le sue porte a un’artista capace di toccare corde profonde della società, portando il linguaggio del cinema e del teatro dentro l’alveo della salute pubblica e delle scienze infermieristiche. Una scelta, insomma, che vuole sottolineare come il benessere collettivo non passi solo dai laboratori e dalle statistiche, ma anche dalle narrazioni che formano coscienza e sensibilità.
Dall’altra parte, non sono mancate perplessità. Il titolo di dottorato, soprattutto in un ambito specialistico come quello infermieristico, per molti rappresenta anni di studio, di turni in corsia, di ricerca applicata e di fatica concreta. Vederlo attribuito a un’attrice – per quanto meritevole – ha suscitato la sensazione di una scorciatoia, di un cortocircuito tra prestigio accademico e visibilità pubblica. Non a caso, diversi osservatori hanno sottolineato il rischio di banalizzare un titolo che per chi lo conquista con merito ha un peso enorme, spesso legato a una carriera professionale difficile e poco riconosciuta.
In questa tensione si inserisce un nodo più ampio: il rapporto tra università e società. È giusto che un ateneo cerchi volti noti per rafforzare il proprio messaggio? O si rischia di trasformare un riconoscimento scientifico in una passerella simbolica, dove conta più il nome del premiato che il rigore del titolo?
Il conferimento del dottorato honoris causa a Paola Cortellesi rende merito alla sua straordinaria capacità di usare l’arte per sensibilizzare su temi sociali centrali e obbliga a interrogarci sul senso del riconoscimento accademico. Il rischio è però quello di confondere due piani distinti: quello simbolico, che riconosce a un personaggio pubblico un ruolo culturale e civile, e quello scientifico, che appartiene invece al mondo della ricerca, con i suoi metodi, i suoi tempi e i suoi sacrifici.
In questo cortocircuito si gioca il vero nodo: la velleità dell’università di avvicinare figure popolari per accrescere la propria visibilità e la velleità dell’opinione pubblica di credere che un titolo honoris causa equivalga a un percorso di dottorato. Ma le velleità, come ci insegna la stessa carriera di Paola Cortellesi, non sono sempre negative: possono trasformarsi in slancio creativo, in provocazione utile, in un invito a ripensare i confini.
La domanda resta aperta: è giusto che un’istituzione accademica “spenda” un titolo di ricerca per premiare un’artista? O forse proprio questo gesto ci costringe a rivedere cosa intendiamo per sapere utile e per conoscenza che serve alla società di oggi? In fondo, il merito più grande di questo conferimento potrebbe non essere il titolo in sé, ma il dibattito che scatena: su come riconosciamo il valore delle persone, su quanto conta la ricerca e su quale equilibrio ci sia tra cultura accademica e cultura popolare.
Anna Arnone
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