Nessuno vuole entrarci, e chi ci lavora da anni non riesce ad andasene. È il paradosso degli infermieri della casa circondariale Dozza di Bologna, dove la mobilità resta di fatto bloccata e il ricambio del personale è quasi inesistente. Un contesto che molti descrivono come “un carcere anche per noi”.
Secondo i dati forniti dall’Ausl Bologna, nella struttura operano oggi 26 infermieri, un coordinatore, cinque oss, quattro tecnici della riabilitazione psichiatrica e un educatore: personale insufficiente rispetto ai bisogni reali.
“Ho chiesto la mobilità due volte, ma senza risultati – racconta una giovane infermiera all’edizione di Bologna del Corriere della Sera -. Il carcere è un posto dove si potrebbe star bene, se i lavoratori fossero più ascoltati, ma alla fine non si sta bene per niente. C’è chi scappa dopo un solo giorno, chi si mette in malattia appena arrivato, chi resiste ma è in burnout”.
E ancora: “Il carcere ha dinamiche tutte sue che impari con il tempo, ma all’inizio può essere scioccante”. Perché gli infermieri non devono solo preparare tra le 100 e le 150 terapie psichiatriche ogni giorno, ma si trovano anche a gestire situazioni molto delicate. “All’inizio – dice ancora l’infermiera al Corriere di Bologna – può essere una doccia fredda, c’è chi tra i detenuti si taglia, chi ingoia lamette, chi si fa male. Non capita tutti i giorni, ma quando succede si è davanti a scene forti. Servirebbe un periodo di affiancamento più lungo per chi entra a lavorare lì come infermiere”.
Il commento di Nursind Bologna
“Chiediamo da anni un cambiamento – spiega Antonella Rodigliano, segretario territoriale di Bologna e segretario regionale del sindacato Nursind -. Pochi accettano di lavorare in carcere, e poi è difficilissimo uscirne. Va incentivato questo lavoro e garantita priorità di mobilità a chi vi opera. L’Ausl non gestisce adeguatamente il personale, e così perdiamo risorse preziose, perché i giovani se ne vanno”.
La testimonianza di Mara Fuzzi (Nursind)
Con 34 anni di servizio alle spalle, di cui quattro passati alla Dozza, Mara Fuzzi conosce bene la realtà penitenziaria: “Il carcere è un luogo particolare: si lavora sempre con il cielo dietro le sbarre, turni carichi e poco conciliabili con la vita privata. È un lavoro stimolante, ma logorante anche sul piano emotivo: il burnout è dietro l’angolo. Ho avuto la fortuna di uscire dopo quattro anni, ma è un’eccezione rara. Serve un supporto psicologico strutturato per chi lavora in questi contesti”.
Opi Bologna e Ausl: serve un confronto
“Tra tutti gli avamposti, il carcere è tra i più a rischio, con una carenza di 34 unità – conferma Pietro Giurdanella, presidente di Opi Bologna -. Bisogna sedersi a un tavolo e affrontare il problema strutturalmente”.
Dal canto suo l’Ausl Bologna, per voce della direttrice assistenziale Stefania Dal Rio, si dice “disponibile al confronto” e annuncia l’avvio di un “percorso di benessere organizzativo” per migliorare la gestione dei turni e affrontare il sovraccarico di lavoro.
Redazione Nurse Times
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