Riceviamo e volentieri pubblichiamo la storia di una mamma infermiera che si è rimessa in gioco per diventare psicologo clinico.
Ho lavorato per anni come infermiera in emergenza-urgenza, dove la rapidità di decisione, la gestione della pressione e il lavoro di squadra non sono competenze accessorie, ma strumenti indispensabili. In contesti così complessi impari presto che la tecnica non basta: servono equilibrio emotivo e capacità di leggere le persone.
A un certo punto la mia vita ha richiesto una riorganizzazione. Mio figlio aveva bisogno di terapie specifiche e regolari, e per garantirgliele ho accettato un cambio di mansione, di fatto un demansionamento. Non per incapacità, ma per poter sostenere le sue necessità. Pensavo fosse un passaggio temporaneo, da vivere con dignità.
Invece quel passo indietro è diventato un’etichetta. Una scelta dettata dalla responsabilità è stata interpretata come segno di scarsa dedizione, sintetizzata in una frase che dice molto più di quanto sembri: “Per te esiste solo tuo figlio”. Da lì un progressivo isolamento. E il silenzio di chi avrebbe potuto intervenire – anche a livello sindacale – ha finito per consolidare la situazione.
Ho toccato un punto basso, in cui la motivazione sembrava svanita. Ma proprio lì ho scelto di cambiare prospettiva: mi sono seduta a quella sedia, ho aperto i libri e ho ricominciato. Ho trasformato il tempo che mi era stato tolto in un investimento su di me. Anno dopo anno, esame dopo esame, oggi sono psicologo clinico.
Questa esperienza mi ha insegnato che le organizzazioni sanitarie sono forti nelle procedure e nella gestione dell’emergenza clinica, ma spesso fragili di fronte a un’emergenza umana. Quando un professionista attraversa una difficoltà la vera leadership non sta nel “metterlo da parte”, ma nel trovare il modo di mantenerlo parte attiva della squadra.
Si parla spesso di carenza di infermieri, ma ciò che spinge molti a lasciare non è solo il carico di lavoro: è il peso di un contesto in cui i bisogni personali vengono letti come segni di debolezza, e il dialogo viene sostituito dal giudizio. Le esperienze difficili restano chiuse tra quattro mura, non per mancanza di volontà di parlarne, ma per paura delle conseguenze.
La sanità è fatta di tecnica e procedure, ma anche – e soprattutto – di persone. E un professionista ascoltato e valorizzato è un professionista che resta, cresce e lavora meglio. Quando il giudizio prende il posto dell’ascolto il rischio non è solo perdere un professionista, ma perdere la persona che lo rende tale.
Mamma Adriana
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