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Sotto il cielo di GAZA. Parte quinta

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5. In viaggio verso Al Quds, l’incontro con Amira e Alah

2 febbraio

Si va verso Al Quds, l’Ospedale della Mezza Luna Rossa, più grande degli altri visti fin’ora. Mi si presenta un disastro: di sette piani, almeno quattro sono fuori uso, completamente demoliti, frantumati, bruciati.

Nei giorni di fuoco continuo, tutti gli occupanti sono stati evacuati, tutti però sdraiati al di fuori delle mura, sulla strada antistante, comprese le incubatrici coi neonati, fatti respirare “ a mano”,  prese sottobraccio e portate via correndo.

In una stanzetta fatiscente scorgo due bambine, gli arti coperti da bende sporche: Amira e Alah.

La prima è rimasta sola al mondo,  genitori e fratelli maciullati  da missili lanciati da un carro armato.

Lei stessa, ferita  in tutto il corpo,  con le gambe fuori uso, si è trascinata nella polvere, fino a trovare una porta aperta  di una casa abbandonata, dove ha cercato da bere e dove, dopo tre giorni, è stata rinvenuta dal proprietario rientrato in una pausa del bombardamento.

Questi addirittura si è spaventato,  prima di capire che si trattava di una ragazzina: il piccolo corpo era ricoperto di polvere bianca, la polvere di Gaza, che ti sommerge ovunque, la polvere del deserto.

Quest’uomo ha trasportato Amira all’ospedale, affrontando  il caos, sotto quel cielo di guerra,  mentre la ragazzina era praticamente dissanguata.

Ha saputo poi che i suoi familiari erano stati sepolti già il giorno prima e che i conoscenti, vicini di casa, trovando “pezzi di carne” irriconoscibili, sparsi sulle macerie, hanno  dedotto che fosse Amira.

Ancora una volta sono percorsa da brividi; ancora una volta mi sentirò più impotente che mai, di fronte alla grandezza di tali tragedie.

Abbiamo portato con noi materiali di primo soccorso:

pacchi di garze, cotone, disinfettanti, betadine, acqua ossigenata, bende, siringhe, mascherine monouso,  cerotti, amoxicillina, cateteri e tubi per tracheotomia, sacche raccolta urine  e deflussori, aghi  epidermici.

Ma anche giocattoli, richiesti come le medicine.

Con un passa-parola abbiamo avuto  l’indicazione di diversi feriti, soprattutto ustionati , rimandati nelle loro abitazioni, almeno quelle rimaste in piedi.

Mi sono recata a trovarli, sotto la guida di Sami, per portare loro assistenza, o perlomeno  “presenza umanitaria”, consapevole del fatto che, in mancanza di mezzi adeguati, ben poco avrei potuto risolvere.

Mi sono resa conto però che, al loro capezzale, già sentirsi prendere in considerazione, oltre che a sostituire bende ormai putrefatte,  molto serviva a dare loro una speranza in più, persa forse in un mare di morte, ma sufficiente ad attaccarsi ad un barlume di vita.

Ahmad, sul suo semplice lettino, lo sguardo perso nei suoi sedici anni appena,  disperato e struggente, mi fissa da lontano, mentre io mi sto avvicinando con rispetto e  timore…e mentre sollevo  le coperte, delicatamente, intravvedo il suo corpo devastato dal fosforo bianco; allora  mi porge le sue mani rattrappite  dalle ustioni, tremolanti e malferme, ma  rigide: non le muoverà più, ma molto peggio è ciò che sta bruciando il suo corpo, penetrando all’interno, a  carpigli le viscere.

Mi chiede se morirà.

Un nodo alla gola, che mi fa ingoiare amaro e saliva, m’impedisce di formulare troppe parole, tantomeno scientifiche.

Riesco solo a dire a Sami: “…cerca di essere molto chiaro,  e di capire bene cosa intendo dire, mentre traduci ad Ahmad  quello che sto per dire; lo vedrò e lo capirò dal suo sguardo, se tu riesci a  riferigli ciò che voglio intendere io, nel modo giusto; devo veder sparire  quella sua infinita tristezza .

Ebbene, digli che assolutamente per questo non morirà, e che deve pensare solo a vivere, al futuro, al domani. Che la forza per guarire la deve trovare dentro di sé, e che sicuramente ce la farà, perchè deve vivere  la sua giovinezza, ne ha diritto.

Parole stupide, lo so, che a fatica hanno superato  la barriera della mia gola strozzata e  delle mie lacrime trattenute a fatica.

Eppure ho visto un sorriso spuntare  su quel giovane volto, e ciò è  bastato per farmi sentire, forse più di ogni altra occasione, in grado di essere utile a qualcuno, in tale inferno; anche se sono  “solo” un’infermiera. Ben sapendo che potrei essere solo  un’infermiera “ bugiarda”…

A cinquant’anni e passa , credevo di essermi abituata  alla morte; credevo di non dovermi stupire più di nulla.

Forse che c’è morte e morte? Forse che sotto un altro cielo, mi appare più tremenda?

Forse che l’immagine di un uomo che muore nel letto di un nostro ospedale, è meno triste e meno dolorosa  di chi muore per una guerra?

Eppure è così: la corazza che si crea, quella  invisibile armatura protettiva, che si forma piano nel tempo, fino ad avvolgere il nostro cuore e la nostra dispensa di sentimenti, isolandoli quasi dalla sensibilità altrui, nella nostra routine professionale, e che ci permette di affrontare il dolore quotidiano, forse non è sufficientemente spessa per sopportare  troppa sofferenza tutta assieme.

O forse solo perchè tanti, troppi, sono i bambini diventati angeli; quei tanti cuccioli innocenti che, rivolgendo  gli occhi al cielo, per rimirare il volo dei gabbiani, hanno invece incrociato lo sguardo  con i missili degli “ Apache” e degli “F16” rombanti; l’ultimo  sguardo.

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