Per poter licenziare un lavoratore dipendente si devono verificare specifiche situazioni che possono riguardare la condotta del lavoratore o la situazione in cui si trova l’azienda (Art. 1 Legge 15 luglio 1966, n. 604 – Legge 15 luglio 1966 n. 604 Norme sui licenziamenti individuali pubblicata nella G.U. n. 195 del 6 agosto 1966; art. 18 dello Statuto dei lavoratori).
Alla condotta del lavoratore si riconducono le motivazioni per il licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, mentre alla situazione in cui si trova l’azienda si riconduce licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il significato di giusta causa di licenziamento non è determinato esplicitamente dalla normativa vigente, dato che l’art. 2119 del Codice Civile si limita a definire in modo generico come giusta causa per il licenziamento quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, cioè non consente neppure di proseguire il rapporto di lavoro per il periodo di preavviso. Il licenziamento per giuta causa non va confuso con il licenziamento per giustificato motivo (di tipo soggettivo oppure oggettivo). Il giustificato motivo soggettivo è costituito da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro“, mentre il giustificato motivo oggettivo è costituito da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art 3 Legge. 604/1996).
La giusta causa invece va identificata anche in connessione al concetto di giustificato motivo soggettivo ed è data da un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali o anche da un fatto esterno al rapporto, ma tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nella puntualità dei successivi adempimenti. I motivi più frequenti riconosciuti come giusta causa di licenziamento per malattia rientrano nella seguente casistica:
- Falso infortunio e falsa malattia del dipendente;
- Rifiuto del dipendente a riprendere il lavoro dopo che è stata constatata l’insussistenza di una malattia con una visita medica fiscale;
- Il dipendente lavora per terzi durante il periodo di malattia e questa attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro.
Ma che succede nello Stivale?
La Corte di Cassazione sez. lavoro con sentenza n. 23365 depositata il 15 ottobre 2013 intervenendo in tema di licenziamento ha affermato la illegittimità del licenziamento di un lavoratore in malattia trovato a lavorare presso l’azienda di un parente, se l’attività non pregiudica la guarigione. Pertanto a dire della Corte la prestazione del lavoratore in malattia risulta contrassegnata dalla sporadicità e occasionalità che rappresentano dei presupposti compatibili con la patologia sofferta oltreché inidonei a ledere quei principi di correttezza e buona fede indispensabili alla tenuta del rapporto di lavoro principale.
Nelle motivazioni della sentenza si legge, secondo i giudici della Suprema Corte, che le contestazioni del datore di lavoro risultano alquanto generiche e la “occasionalità e sporadicità” dell’attività compiuta dal lavoratore che, comunque, è risultata compatibile con la patologia sofferta dal lavoratore stesso e dunque tale da non violare i canoni di correttezza e buona fede. Pertanto non può incidere sul rapporto di lavoro con una sanzione espulsiva, non violando gli obblighi di correttezza e buona fede. Infatti, “lo stato di malattia era indubitabile e le marginali attività espletate non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un’incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.”.
Ma succede dell’inverosimile per una dipendente pubblica…
Una professionista in malattia per delle coliche addominali recidivanti, dovute a un intervento, che le impedivano di lavorare, durante il periodo di malattia era, ovviamente, assente dal posto di lavoro e non idonea temporaneamente, ma…. piuttosto che sostare a domicilio…era a cantare in Tv. La casa di cura la licenziò. La Cassazione l’ha fatta reintegrare, perché la guarigione non era stata ritardata e “il carattere amatoriale” della sua esibizione era “espressione dei diritti della persona”.
La casa di cura presso cui lavorava non le perdonò la comparsata in presso una emittente televisiva e la sua esibizione canora durante la malattia e scattò subito il licenziamento. Giusta causa, deve aver pensato l’azienda. Inizia una battaglia legale che in Cassazione finisce in modo del tutto inaspettato. Come racconta il Corriere della Sera, infatti, i giudici di terzo grado danno ragione alla cantante. La fanno reintegrare sul posto di lavoro. E obbligano anche l’azienda a un robusto risarcimento: 100mila euro. Perché, spiegano i magistrati nella sentenza, la guarigione non era stata ritardata e “il carattere amatoriale” della sua esibizione era “espressione dei diritti della persona”. Che invece la signora dovesse essere in casa in preda ai dolori addominali, invece, non è stato ritenuto evidentemente significativo.
E se si sostengono esami durante il periodo di malattia?
La Cassazione si è espressa così: illegittimo il licenziamento del dipendente che supera l’esame di avvocato mentre è in malattia per “depressione”.
Il dipendente che è assente dal lavoro perché depresso può ben studiare e superare l’esame di avvocato senza essere licenziato. La malattia infatti non significa inidoneità al lavoro e pertanto il licenziamento è illegittimo. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Cassazione, con la sentenza n. 22410/2015 che rigetta il ricorso di un comune avverso la decisione della corte di merito che riteneva non legittimo il licenziamento inflitto. L’ente lamentava che il lavoratore mentre si trovava assente per “stato ansioso depressivo reattivo”, patologia durata per quasi due anni, avesse posto in essere un’attività incompatibile con la stessa preparando l’esame orale per l’abilitazione alla professione di avvocato poi superato. E utilizzava come prova la relazione della Commissione medica dell’Asl la quale aveva espresso giudizio di idoneità del dipendente comunale “al lavoro proficuo, senza limitazioni per mansioni o incarichi specifici da svolgere presso l’ente di appartenenza”. Per gli Ermellini, però, la tesi non regge e ha ragione invece la corte di merito. La malattia del lavoratore, hanno affermato “costituisce situazione diversa dalla sua inidoneità al lavoro: pur essendo entrambe cause d’impossibilità della prestazione lavorativa, esse hanno infatti natura e disciplina diverse, per essere la prima di carattere temporaneo e implicante la totale impossibilità della prestazione, che determina, ai sensi dell’articolo 2110 c.c., la legittimità del licenziamento quando abbia causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto, laddove la seconda ha carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, e non implica necessariamente l’impossibilità totale della prestazione, consentendo la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall’art. 5 dello statuto dei lavoratori, indipendentemente dal superamento del periodo di comporto”.
CALABRESE Michele
Sitografia e bibliografia:
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