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Massimo Randolfi

PsicoPoint: Infermieri matti a lavoro, ne abbiamo?

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Un nuovo appuntamento con PsicoPoint, la rubrica a cura del dott. Giuseppe Marino sta per avere inizio.

Oggi siamo euforici. Si avvicina il carnevale e decidiamo di fare un piccolo scherzetto al nostro collega: gli facciamo credere di essere andati fuori di testa!

Appena gira l’angolo parte la burla: mentre lui non ci vede, arruffiamo i capelli, ci sleghiamo i polsini, allarghiamo un po’ il colletto e ci slacciamo una scarpa – solo una così sembriamo ancora più confusi.

Ci prepariamo mentalmente, proprio come Jack Nicholson prima della famosa scena di Shining. Ecco, siamo pronti!

Sentiamo i passi del collega. Arriva e facciamo partire la nostra interpretazione della pazzia. All’inizio il collega sembrerà un po’ confuso, ma se siamo bravi a recitare probabilmente andrà in tilt. Si preoccuperà e chiederà soccorso: ma poi?

Facciamo finta che lo scherzo finisca, nella mente del collega tornerà tutto normale oppure rimarrà sempre una sentinella d’allarme nei vostri riguardi?

La risposta non è così scontata, ecco perché!

Siamo nel 1973 e David Rosenhan vuole portare l’attenzione sull’effettiva validità della diagnosi psichiatrica.

Lo studio si svolge negli USA e sarà pubblicato dal giornale Science. In un primo momento, Rosenhan coinvolge alcuni suoi collaboratori (3 donne e 5 uomini) perché simulino delle allucinazioni uditive con il tentativo di ottenere un ricovero in ospedale.

Il trucco riesce: tutti quanti i collaboratori vengono ricoverati in 12 ospedali psichiatrici diversi. Adesso viene il bello.

Una volta dentro le strutture ospedaliere tutti gli attori, come da accordi, riprendono a comportarsi in modo normale: sono accomodanti, collaborativi ed amichevoli con il personale. Ma ormai la molla è scattata!

Nessuno di loro viene ritenuto sano, non si pensa neppure lontanamente che stiano fingendo.

Nei reparti li credono matti, ed anzi, ricevono anche delle pressioni da parte del personale per ammettere la malattia. Inoltre, per conquistare la dimissione i finti-pazienti vengono costretti a prendere farmaci antipsicotici, che comunque riescono a sviare, fingendone l’assunzione per poi gettarli nelle toilette. La loro degenza durerà da 7 a ben 52 giorni, con una media di 19 giorni ciascuno.

La diagnosi? Schizofrenia (con una sola eccezione)!

L’esperimento fa molto pensare e riflettete su tantissimi temi, ce ne sarebbe da parlare per anni: la malattia psichiatrica, la diagnosi, la presa in cura e l’alleanza terapeutica, fino a spaziare ad argomenti più generali come la professionalità, il pregiudizio, la capacità di coping, di resilienza e di empatia fino alle più complesse dinamiche all’interno di un gruppo.

Un tema altrettanto importante è il meccanicismo con il quale spesso ci confrontiamo ed a volte ci conformiamo agli altri, senza dare troppa attenzione, senza metterci veramente in ascolto, vivendo a lavoro un po’ come robot che fanno tutto in automatico.

A volte qualcuno inciampa nel ritornello del “si è sempre fatto così”. Questo è un processo cognitivo abbastanza naturale, che non richiede troppa energia e non necessariamente è negativo.

Ma quando il meccanismo si intoppa c’è sempre qualcuno che ne paga le conseguenze.

E non per forza è il nostro paziente: ti è mai capitato di vedere un tuo collega distratto, stanco o confuso fare delle scelte discutibili?

O un team di lavoro, che indirizza il proprio impegno verso una scelta forse troppo rigida o stretta per la situazione in atto? Capita molte volte di incontrare situazioni simili.

Certe volte capita persino con un intero sistema o una classe di professionisti: può succedere di essere coinvolti in un vortice di decisioni che ci fanno perdere l’orientamento.

Accade quotidianamente davanti alla tv, con le pubblicità. Non sono fatte per riflettere, ma per far scattare la scintilla.

Come detto prima, il sistema non è negativo ma può capitare delle volte di trovarsi in difficoltà a rivalutare la situazione: ad esempio, quando valutiamo in maniera eccessiva il nostro investimento su quell’automatismo.

Allora diventa difficile accettare di dover cambiare direzione e tornare sui propri passi. L’esperimento di Rosenhan è solo uno tra le tante ricerche che ci aiutano a comprendere meglio i nostri limiti, ma che ci consentono anche di rifletterci e quindi migliorarci!

Uno strumento fantastico che abbiamo a nostra disposizione è la formazione: più riusciamo realmente a formarci più saremo sempre sul pezzo, nutriremo passione per il nostro lavoro e anche quando saremo un po’ stanchi, concedendoci un piccolo stacco, anche i nostri automatismi risulteranno più raffinati. Ah, ma non è finita qui!

Volete sapere come si concluse l’esperimento?

In un secondo periodo, dopo i risultati della prima fase dell’esperimento, un noto ospedale psichiatrico statunitense decise di lanciare una sfida a Rosenhan chiedendo di inviargli tutti i finti pazienti che desiderasse. Rosenhan accettò.

Nelle settimane successive, su 193 casi pervenuti, gli operatori sanitari dell’ospedale fecero 152 diagnosi di malattia mentale ed identificarono ben 41 pseudo-pazienti inviati da Rosenhan. In verità, Rosenhan non aveva inviato proprio nessuno.

 

Ringraziamo il dott. Giuseppe Marino per l’attenta disamina sulla situazione. Vi attendiamo sempre più numerosi con il prossimo appuntamento della rubrica Psicopoint.

Simone Gussoni

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