Mi sono casualmente imbattuto nel blog gestito dal collega Luigi D’Onofrio, infermiere italiano emigrato in Inghilterra dal titolo Il mio Regno per un Infermiere.
Ho potuto leggere diversi articoli molto interessanti, di seguito riproporrò quello che più mi ha incuriosito: “Il lato oscuro degli infermieri : da San Camillo de Lellis agli amici di Maria, passando per Candy Candy”.
Il lato oscuro degli infermieri : da San Camillo de Lellis agli amici di Maria, passando per Candy Candy
“Ha ucciso 13 pazienti in Rianimazione iniettandogli eparina endovena, è una psicopatica serial killer!”
”Gli infermieri hanno lasciato morire un uomo dopo avergli assegnato un Codice Verde in Pronto Soccorso, non hanno studiato per fare questo!”
“Gli infermieri facevano a gara a chi inseriva le cannule più grandi ai pazienti a Vicenza ed avevano anche costituito un gruppo Whatsapp!”
Negli ultimi mesi sono stati numerosi i fatti di cronaca che hanno coinvolto infermieri, finiti in prima pagina (e nell’occhio del ciclone) su giornali locali e nazionali.
Molti di questi hanno trovato successivamente smentita (come nel celebre caso della presunta serial killer di Piombino), scarcerata dopo che la Procura aveva rilevato errori di trascrizione delle intercettazioni telefoniche, con conseguente attribuzione di determinate affermazioni alla persona sbagliata.
O come nel caso della vicenda della “gara a chi inseriva aghi cannula più grandi“ al Pronto Soccorso del nosocomio di Vicenza, in cui i dipendenti coinvolti sono stati disciplinarmente sanzionati solo per l’uso improprio del cellulare in orario di servizio.
Le vicende precedentemente accennate sono sempre state comunque pesantemente ingigantite e manipolate dalla televisione e dalla carta stampata, subito pronte a puntare il dito contro infermieri assassini, torturatori e diabolici.
Manco organizzassero dei sabba in reparto durante i turni di notte.
La denigrazione ed i luoghi comuni sostenuti sono stati così sfacciati da far montare subito l’indignazione e la protesta, sui social network e nella vita reale, di tutta la categoria infermieristica, che finalmente, dopo decenni, ha mostrato di iniziare a compattarsi per fare fronte comune nell’autotutela della professione, anche per effetto di una decennale, sistematica, premeditata strategia di dequalificazione da parte dei Governi locali e nazionali.
Molti sono ancora i polemisti, che spesso dimenticano anche le più elementari regole di buona condotta nella comunicazione digitale, ma tant’è. Siamo ancora agli inizi di un dibattito che spero diventi sempre più costruttivo.
Anche in occasione della recente Giornata Internazionale dell’infermiere (il 12 maggio, per chi non lo sapesse o non se lo fosse ricordato), le manifestazioni, le campagne, i flash mob mi sono sembrati più numerosi del solito.
Come se non bastasse, le polemiche e le e-mail di protesta scatenate dalla trasmissione di La7 “Tagadà“, nella quale si colpevolizzavano gli infermieri triagisti a seguito di un decesso avvenuto in un Pronto Soccorso di Roma dopo l’assegnazione di un codice verde, hanno costretto gli autori ad una trasmissione di rettifica (almeno in teoria, non nei fatti ahimè) a cui è stata invitata la Presidente Ipasvi Mangiacavalli.
Nel leggere e partecipare alle discussioni sui sociali network mi è capitato di imbattermi in qualunque tipo di considerazione e commento, da chi condannava senza indugi, a chi invitava ad una più attenta riflessione ed analisi delle vicende (pochi, a mio parere), a chi amava alimentare polemiche ad arte per fini imprecisati, a chi infine santificava la figura infermieristica.
Quest’ultima categoria di commentatori in particolare ha carpito la mia attenzione.
Perchè accetto ogni punto di vista, ma non l’ipocrisia: gli infermieri non sono sadici torturatori, ma nemmeno posso ammettere in un professionista navigato il mito di Florence Nightingale o di Candy Candy, al massimo va bene per uno studente del primo anno.
E’ infatti bene ricordare che di santi, quelli veri, quelli come San Camillo de Lellis per intenderci (il quale, peraltro, aveva un lungo curriculum di esperienze di guerra, omicidi in duello, frequentazioni di taverne e di prostitute prima della conversione) non ne ho finora incontrato nessuno.
Ma proprio nessuno. Anzi.
Quante volte è capitato ad un infermiere di pensare o di dire al collega in turno od alla moglie/marito a casa che il paziente Tizio è un gran rompi…. perchè suona ostinatamente il campanello anche per la minima sciocchezza?
Quante volte è capitato di considerare insopportabile Caio, che esige in modo altrettanto petulante che l’infermiere gli fornisca informazioni dettagliatissime sulle sue condizioni cliniche e sulle cause della sua malattia, mentre rimane muto di fronte al medico, che è la figura sanitaria in primis deputata a fornire questo tipo di delucidazioni?
E ancora: quante volte, in Italia e qui, in Inghilterra, si è considerato sciocco il paziente che non ha rispettato semplici istruzioni operative finalizzate a facilitare il buon fine di un trattamento terapeutico (come l’evitare di piegare il braccio durante un’infusione endovenosa, per evitare che la cannula si pieghi e la pompa infusionale inizi ad andare in allarme)?
E come credete che gli infermieri (ed i medici) considerino i pazienti che si recano in Pronto Soccorso la domenica pomeriggio per un problema che riferiscono essere presente da settimane, se non addirittura da mesi?
Ho visto e sentito medici ed infermieri ridere di un nome buffo o di una caratteristica fisica insolita. Li ho visti e sentiti imprecare, odiare, scherzare sui pazienti.
L’ho fatto anch’io: mea culpa.
Perchè siamo esseri umani. Perchè ci stanchiamo e siamo stressati. Perchè anche la nostra pazienza finisce.
Perchè non siamo capaci di amare incondizionatamente, in quello sono bravi solo i santi. Di santi ce ne sono stati pochi al mondo. Gli altri amano, ma possono anche arrabbiarsi e odiare.
Sempre nel segreto di una guardiola o di una stanzetta, o delle quattro mura di casa, o di un qualunque luogo lontano dall’ospedale.
Ma poi si esce, si torna in corsia, nella stanza di quel paziente stupido o cattivo o petulante.
E si torna a fare il proprio lavoro, magari con il mal di pancia, con il fegato che esplode, con la voglia di rispondere a tono e senza peli sulla lingua.
Ma sempre con maturità, professionalità, attenzione, con una briciola di riserva di pazienza che spunta fuori all’improvviso da chissà quale angolo dell’anima.
Non si aggredisce o maltratta mai un paziente od un suo familiare. Altrimenti sì che devono scattare la condanna e la censura.
Essere infermieri non ci rende automaticamente migliori degli altri, perchè quella infermieristica non è una missione, ma una professione.
Le missionarie indossano la tonaca, gli infermieri l’uniforme (anche se sono ancora numerose le suore – infermiere, come la responsabile del mio corso di laurea).
L’infermiere è pagato per il suo lavoro, il missionario no.
Essere al capezzale dell’ammalato o di una persona in punto di morte non fa subito di noi degli empatici ed amorevoli dispensatori di carità.
Ho sempre sostenuto infatti che l’empatia, definita (secondo l’Enciclopedia Treccani) come quella forma di immedesimazione negli stati psicologici dell’altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o ‘comprensione’, del suo comportamento, è così rara da non caratterizzare l’attività quotidiana dell’infermiere, se non quando egli ha vissuto la stessa situazione del paziente.
Per il resto non si può parlare di un approccio che coinvolga anche solo parzialmente il lato emotivo, come sostenuto da filosofi e psicologi, ma solo di comprensione razionale di processi emotivi e psichici del paziente.
In altre parole: il cuore non c’entra niente, c’entra solo la mente.
Perchè non è facile che la sofferenza o addirittura il calvario di un paziente scendano giù dal cervello al cuore. E quando questo succede, fa male, molto male e si rischia il burn out.
L’infermiere deve sempre conservare raziocinio e sangue freddo, non può rimanere terrorizzato di fronte ad un neonato con le convulsioni o perdere la calma se arriva un infartuato e la moglie grida disperata.
Essere infermieri è un lavoro che richiede una componente razionale solida e dominante. Altrimenti ogni giorno di lavoro sarebbe una tortura.
L’infermiere comprende, ma non si immedesima, se non raramente.
La componente emotiva nel suo lavoro esiste comunque, ed è costituita dal rispetto per la persona umana, che è la destinataria delle sue azioni e del suo lavoro.
Questo lo porta ad essere gentile, educato, premuroso, attento, paziente. Le vogliamo chiamare manifestazioni d’amore? D’accordo, mi sta bene.
Ma chiunque svolga (bene) un lavoro con il pubblico, anche un commesso in un negozio di vestiti od un commercialista, possono comportarsi allo stesso modo.
Non mi sembra però che per loro si sia mai parlato di “empatia” o di “amore per il prossimo”, come invece mi è stato insegnato nel mio corso di studi.
In buona sostanza, se davvero gli infermieri ritengono di essere pronti per il cambiamento e l’evoluzione della professione infermieristica, in vista dell’acquisizione di competenze evolute e specialistiche, è ora di smetterla di mitizzare la professione, di spogliarla dei suoi connotati mistico-filosofico-religiosi, nonchè di rompere una volta per tutte il tabù dell’infermiere che si incazza (perdonate la volgarità, ma calza a pennello).
Basta considerare l’infermieristica come una missione da adempiere con spirito di abnegazione, neanche si fosse in una tenda da campo in uno scenario di guerra.
Altrimenti chiunque, dai medici, ai pazienti, ai loro familiari, fino ai politici che governano l’Italia, si sentiranno in diritto di continuare a spremerci come limoni, esigendo un sacrificio delle proprie energie e della vita privata ormai divenuto spesso intollerabile.
- Abbiamo il diritto di tornare a casa quando l’orario di lavoro è terminato e se restiamo è straordinario. E va pagato.
- Abbiamo il diritto di scioperare.
- Abbiamo il diritto di indossare orecchini, piercing e tatuaggi, di avere capelli lunghi e perfino tinti.
Le uniche regole che dobbiamo rispettare sono quelle dettate dalle evidenze scientifiche sul controllo della trasmissione delle infezioni.
Le infermiere hanno il diritto di non indossare il velo o la gonna, perchè non sono pratici (in Italia non avviene più, qui in Inghilterra spesso capita ancora di vedere indossare un lungo vestito con gonna).
E abbiamo, sì, anche il diritto di sfogarci pensando e parlando male dei pazienti.
Non tutti sono d’accordo.
L’autorevole giurista, esperto di diritto infermieristico, Dott. Luca Benci, nel suo interessante articolo sui fatti di Vicenza, qui linkato, dal titolo: “Lo strano caso degli ‘Amici di Maria’. Ma è lecito scherzare sui pazienti? Ecco i verbali dell’Asl di Vicenza dopo lo scandalo della presunta gara” afferma: “Quello che è inconcepibile per l’opinione pubblica è soprattutto l’idea che coloro che ti stanno curando possano giudicare, scherzare e schernire proprio la persona oggetto delle sue attenzioni: medici e infermieri utilizzano, talvolta, espressioni inadatte e mettono in atto comportamenti da cui dovrebbero astenersi. (…) Che questo sia inaccettabile è evidente, ma ci si può domandare se sia realmente parte della consuetudine ospedaliera e che, forse, può avere anche la finalità di stemperare la tensione, in chi vive e tratta la sofferenza altrui per lavoro. Inaccettabile ma probabilmente accade più di quanto si possa pensare”.
E’ vero, gentile Dott. Benci. Accade molto più di quanto Lei, non più avvezzo ai ritmi di reparto, possa immaginare. Accade in Italia ed Inghilterra. Accade più frequentemente quando si è sotto pressione o stressati. Ed è impossibile non lasciarsi andare in privato mai, ma proprio mai, ad un commento che detto in una pubblica piazza sarebbe quantomeno inopportuno e non professionale.
Io difendo perciò a spada tratta e fino a prova contraria i colleghi di Vicenza, violati nella loro privacy attraverso la pubblicazione di conversazioni che erano e dovevano rimanere private e che comunque non dimostrano l’inappropriatezza degli interventi assistenziali: sono state forse inserite più cannule del dovuto? Con un calibro più grande del dovuto? Chi ha le prove le fornisca.
Quante volte, da studente, mi sono anch’io messo in competizione per chi inseriva gli aghi cannula nei pazienti più difficili o per individuare chi eseguiva più prelievi in un giorno!
Lo pensano e lo fanno tutti, soprattutto i più giovani. Tutti lo sanno. Ma parlarne è un tabù.
Perchè si pensa subito male. Perchè l’infermiere (ma anche il medico) sono gli angeli del capezzale.
Recita l’art. 15 della Costituzione: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
La ratio della norma è molto semplice: siamo liberi di esprimere nel privato le nostre opinioni, salvo poi attenerci pubblicamente al rispetto delle regole, fatta eccezione nei casi in cui vi è un processo in corso e quindi si prevede la possibilità di pubblicare determinati atti e documentazioni.
A determinate condizioni.
Perchè estrapolando frasi dal loro contesto è facile interpretarle erroneamente e condannare. Ma nel caso di specie le garanzie di legge non sono invece state affatto rispettate, visto che al momento non risultano processi pendenti in corso.
Mi auguro pertanto che i responsabili della divulgazione delle conversazioni subiscano a loro volta un’indagine, anche se dubito che ciò avvenga; loro sì, che hanno causato un grave danno ai diritti (costituzionali!) altrui.
Ancora una volta: anche gli infermieri sono esseri umani.
Ci si consentano vizi privati e pubbliche virtù.
Posso condividere appieno la disamina del collega emigrato oltremanica e, sapere di non essere l’unico a pensarla a questo modo, consola i miei momenti più tristi.
Momenti derivanti dal fatto di dover osservare, a volte, una professione intellettuale prossima alla morte principalmente per il “volere” dei membri che la compongono.
Fonti:
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