Mi sono accidentalmente imbattutto in un articolo riguardante la situazione formativa infermieristica apparso recentemente sul sito senzatregua.it.
L’autore dell’articolo ha descritto alla perfezione la realtà universitaria italiana, fornendo numerosi spunti per la riflessione.
Riportiamo di seguito l’articolo in versione integrale:
Il corso di laurea in Infermieristica fu istituito il 19 novembre 1990 con la legge n. 341, con obbligo delle regioni di stipulare opportuni protocolli d’intesa con le università del territorio entro il primo gennaio 1996.
In questo modo le scuole professionali venivano sostituite dal diploma di laurea necessario per esercitare tale professione.
Attualmente il corso di laurea in infermieristica, così come quelli delle altre professioni sanitarie, è progettato come qualsiasi altro corso di laurea del nuovo ordinamento. Tuttavia i suoi iscritti non sono semplici studenti.
Storicamente l’apprendimento di questa professione è stato sempre vincolato ad un esercizio pratico sul campo in cui gli aspiranti infermieri acquisivano le conoscenze per diventare dei professionisti ed entrare nel mondo del lavoro. Ad oggi nel corso di laurea questo lato pratico è stato integrato con il tirocinio curriculare obbligatorio.
Questi tirocini consistono nel lavoro e nella permanenza degli studenti all’interno dei reparti delle strutture ospedaliere, a contatto con medici, infermieri e pazienti. Progressivamente nel corso dei tre anni la quantità complessiva delle ore da svolgere aumenta, come aumenta il livello delle mansioni e delle attività.
Dietro il pretesto della didattica si nasconde però una questione più profonda: lo sfruttamento da parte delle aziende sanitarie, universitarie e non, di una manodopera semi-specializzata gratuita.
Un’università di medie dimensioni conta nei tre anni tra i 250 e i 300 studenti di infermieristica alla quale si devono aggiungere tutti gli studenti dislocati nelle sedi distaccate. Per esempio la sola università di Tor Vergata, un ateneo che conta meno di 40.000 iscritti, fornisce studenti a ben 13 sedi ospedaliere (non solo romane) oltre lo stesso policlinico universitario, all’interno delle quali gli studenti frequentano anche le lezioni.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi: quanti altri corsi di laurea presentano un simile dislocamento?
Questo elemento è utile a comprendere quanto sia stretto il rapporto tra la quantità di studenti e l’assoluta necessità di manodopera dei singoli ospedali. Di fatto l’università preferisce dislocare i propri studenti facendo fare più ore di tirocinio a ciascun tirocinante in diverse sedi ospedaliere, piuttosto che far convergere tutti in un unico policlinico con la conseguente diminuzione del monte ore.
Con questa politica formativa un giovane può trovarsi a studiare anche a decine di chilometri dalla propria università d’appartenenza, ritrovandosi completamente alienato dalla vita universitaria in un modello di vera e propria formazione aziendale dal carattere taylorista, dove studio e lavoro coesistono in un unico ambiente.
Attualmente secondo il DL del 2 aprile 2001 le università possono regolare un terzo dell’ordinamento didattico secondo le proprie necessità, che spesso coincidono con quelle delle strutture ospedaliere a cui fanno riferimento.
Ciò fa sì che in molti atenei questo terzo venga destinato a ore di tirocinio, meccanismo che presumibilmente viene messo in atto nelle strutture con più necessità di manodopera. Per valutare meglio il rapporto esistente tra atenei e policlinici possiamo riferirci ad uno studio italiano pubblicato sul “Journal of Nursing Education and Practice” del 2014.
Attualmente in Europa questi studenti svolgono tra il 33% e il 55% del proprio monte ore universitario in attività pratica e permane una polarizzazione di genere che vede più del 70% di ragazze iscritte.
Ancor più interessante è la dislocazione che hanno i tirocinanti in Italia all’interno della singola struttura: il 31% in reparti clinici, il 28% nei reparti chirurgici, il 24% nelle sale rosse, terapie intensive e Ps, mentre il 16% negli ambulatori e nei reparti pediatrici.
Di fatto ogni reparto di ospedale mantiene una quota minima di tirocinanti che non rispecchia necessariamente ciò che è utile per il percorso formativo di questi ultimi. Da un lato esiste più del 60% di studenti dirottati proprio in quei reparti, clinici e chirurgici, dove vi è risaputamente una cronica necessità di personale; dall’altro quasi il 20% è destinato all’attività ambulatoriale dove alla pratica di nursing si sostituisce per lo più del mero lavoro amministrativo e modulistico.
“Il corso di laurea di infermieristica” –riporta una studentessa dell’Università di Roma Tor Vergata– “ci obbliga in sede di tirocinio a seguire la stessa turnazione degli infermieri, includendo le notti e lasciandoci liberi solo le festività del 24, 25 e del giorno di Pasqua. A questo si aggiunge anche il peso delle lezioni e degli esami”.
A seconda dell’università le ore di tirocinio possono variare: nel caso di Tor Vergata i tirocinanti devono svolgere nel primo anno 720 ore, nel secondo 750 e nel terzo 900, per un totale di 2.370 ore.
Per renderci conto, un infermiere strutturato in un anno, con una quota media di straordinari, svolge meno di 2.000 ore. Di fatto l’università estrae da questi tirocinanti più di un anno di lavoro.
“Al termine di ogni anno il corso di laurea prevede un esame specifico e per farlo dobbiamo aver svolto almeno il 75% delle ore totali. Se questo non avviene o se il giudizio di fine ciclo di tirocinio, datoci dal caposala, è negativo non possiamo accedere all’esame e iscriverci all’anno seguente e perdiamo tutte le ore fino a quel momento svolte.”
È proprio qui che risiede la vera natura del ricatto. Indifferentemente dalla media che si ha e dalla quantità di crediti accumulati, l’esito e lo svolgimento del tirocinio sono la conditio sine qua non per poter avanzare nel corso di studi.
“Una volta terminati tutti gli esami la direzione del corso di laurea ci comunica le ultime ore di tirocinio che dobbiamo svolgere, il cosiddetto extraciclo, nel quale sono conteggiate sia le ore in cui siamo stati assenti sia eventuali ore extra.”
Alla domanda sulla natura di queste ore extra ci risponde “sono ore aggiuntive. Ad esempio io alla fine del triennio mi sono trovata a dover svolgere 300 ore in più rispetto a quanto mi spettasse. L’università giustifica questo come una forma di recupero delle ore di lezione frontale in cui siamo mancati o che non si sono svolte per motivi non dipendenti da noi”.
Evidentemente la didattica frontale è meno prioritaria.
Durante l’ultimo anno di corso gli studenti devono svolgere 900 ore di tirocinio, ciò è dovuto principalmente all’aggiunta dei turni di notte, questo fa sì che l’organizzazione dei turni avvenga su uno schema di quattro giorni chiamato “turnetto”.
“Il turnetto si struttura così: un turno di mattina, un turno di pomeriggio, un turno di notte, a cui segue lo smonto e il giorno di riposo. I turni sono di 7 ore ad eccezione della notte che è di 10“, tuttavia “se facciamo il turno di notte, ma siamo stati assenti al turno della mattina o del pomeriggio precedenti, non ci vengono riconosciute le ore dello smonto e automaticamente le perdiamo”.
La maggioranza degli studenti acquisisce rapidamente le stesse competenze di uno strutturato, passando da manovre sanitarie semplici come il ricambio di una medicazione su ferita chirurgica a procedure terapeutiche avanzate come può essere la somministrazione di un chemioterapico ad un paziente oncologico.
In capo al testo, per descrivere questo tipo di formazione, abbiamo parlato di modello taylorista: secondo il modello di Taylor la formazione dei quadri e degli operai di industria avveniva nella sede dove successivamente gli stessi operai si sarebbero trovati a lavorare, sotto forma di un investimento che il padrone faceva sulla propria manodopera assunta.
Qui permane questo modello formativo di carattere padronale senza tuttavia garantire la continuità lavorativa, risultando nel complesso ancor più squallido.
I tirocinanti che studiano e lavorano all’interno di un ospedale non hanno nessuna sicurezza che, una volta laureati, possano venire assunti nella medesima struttura, come sarebbe normale che sia. Oltre a non essere retribuiti, loro stessi vanno a saturare quel mercato del lavoro già tendenzialmente chiuso e che in futuro potrebbe non garantirgli un’occupazione, soprattutto nel pubblico.
Se un infermiere guadagna circa 1500-1600 euro mensili netti, è evidente che il risparmio complessivo derivante dal lavoro di questi ragazzi è di svariati milioni di euro. Quello che ne risulta è una dialettica al ribasso che non giova né agli studenti sfruttati né ai lavoratori del comparto sanitario i cui stipendi sono costretti a competere contro il lavoro gratuito.
Come non essere d’accordo sul fatto che qualcosa debba necessariamente cambiare nell’organizzazione didattica del corso di laurea in Infermieristica e nel Tirocinio Clinico. Ma da dove iniziare?
Simone Gussoni
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