Lo ha scritto la collega Chiara Ciresa, che ha deciso di tornare in Italia dopo aver conosciuto pregi e difetti del lavoro nel Regno Unito.
Non tutte le esperienze di lavoro all’estero sono definitive. Anzi, ben poche lo sono. Al rientro in Italia, tuttavia, spesso si custodisce dentro di sé quanto osservato e appreso. Nella migliore delle ipotesi, se ne parla con pochi intimi.
Chiara Ciresa, una volta esaurita la sua avventura in Gran Bretagna, ha invece deciso di fare molto di più che trasmettere la sua esperienza a qualche amico e collega: ci ha scritto addirittura un libro, il primo nel suo genere, intitolato Diario di un’infermiera italiana in Inghilterra: guida di sopravvivenza tra agenzie di recruitment, NMC, lavoro e vita all’estero (Amazon books).
Nell’inervista che segue, Chiara mi ha raccontato di sé e mi ha esposto alcune brillanti considerazioni sul nursing britannico.
Ci puoi raccontare in breve la tua esperienza nel Regno Unito e i motivi del tuo rientro in Italia?
“Ho deciso di partire per l’Inghilterra, un po’ per gioco e un po’ perché ero spinta dalla voglia di vedere la mia professione, e di riflesso me stessa, affermata e riconosciuta. Ho sempre amato l’inglese e ho sempre avuto voglia di provare esperienze nuove. Dall’insieme di queste idee è nata un’esperienza di tre anni, prima a Milton Keynes e poi a Nottingham. Dopo questo period, però, la mancanza della mia famiglia e il non sentirmi ancora veramente a casa, anche dopo anni molto intensi tra lavoro ed esperienze di vita uniche, mi hanno fatto decidere di tornare in Italia. Ora sono felice”.
Quali sono, secondo te, pregi e difetti del Sistema sanitario inglese, in rapporto a quello italiano?
“Il sistema sanitario inglese è una macchina, nel senso che tutto procede in modo standardizzato e seguendo linee guida che sono state studiate e ristudiate, ma soprattutto continuamente aggiornate. Tuttavia, la troppa standardizzazione del personale e del lavoro dell’infermiere mi ha fatto sentire un po’ la mancanza di quel rapporto genuino che si crea tra infermiere e paziente-familiare, ma anche quello di reciproco scambio tra colleghi. La tendenza a dover pensare tutti in egual modo, e quindi nella stessa direzione, non mi ha mai convinta.
Così come non mi ha convinta la preparazione universitaria dei colleghi in UK: pochissime ore di anatomia e fisiologia, tanta concentrazione sulla relazione con il paziente e poco focus su procedure e/o eziologia delle patologie. Tante volte mi è capitato di sentire colleghi ammettere di non avere la benché minima idea di cosa fossero e a cosa servissero gli elettroliti, oppure perché bisogna controllare alcuni parametri rispetto ad altri prima di somministrare, ad esempio, i diuretici”.
In che modo l’esperienza inglese ha contribuito alla tua maturazione? Quale è stato l’apporto al tuo bagaglio di competenze?
“Questa esperienza, nel suo complesso, mi ha aiutata moltissimo a diventare una professionista più completa. Ci sono alcune pecche nel sistema sanitario inglese o nella preparazione dei colleghi a livello universitario, ma ci sono anche tantissime cose che noi professionisti italiani dovremmo aspirare (o forse sperare!) di portare nel nostro lavoro. Più qualificazione professionale, più specializzazioni riconosciute, uso corretto delle linee guida, non solo a livello di carte da compilare, ma anche e soprattutto nella pratica infermieristica”.
Come sei stata accolta nel tuo ambiente di lavoro, al rientro in Italia?
“Al ritorno in Italia ho trovato colleghe molto interessate alla mia esperienza. Purtroppo, però, mi sono dovuta nuovamente relazionare con pazienti che ancora non riconoscono e/o accettano la professione infermieristica come autonoma e arrivata”.
Pensi che il modello anglosassone di nursing possa sostenere l’evoluzione di quello italiano? Se sì, In che modo?
“Per quanto riguarda la possibilità che il sistema di nursing inglese possa costituire l’evoluzione di quello italiano, ho forti dubbi, perché penso che la nostra preparazione universitaria (teorica e pratica) sia una delle migliori al mondo. ‘Adattarsi’ al modello inglese, quindi, vorrebbe dire un po’ regredire. Dall’altra parte, siamo ancora molto indietro su alcuni punti cardine relativi alla nostra professione (sia a livello legislativo sia a livello di specializzazioni), che invece in altri Paesi, come l’Inghilterra, sono già consolidati”.
Hai raccontato la tua esperienza in un libro. Cosa ti ha spinto a farlo?
“Ho scelto di racchiudere la mia esperienza in un libro per poter aiutare chi, come me, non si voglia accontentare, voglia provare, voglia vedere al di là del proprio naso. Io stessa avrei avuto molto piacere di leggere l’esperienza di una mia collega al tempo della mia decisione. Quindi mi sono detta: perché no? E così ho racchiuso in poche pagine l’esperienza più importante della mia vita, raccontando in modo sincero gli aspetti per me positivi e quelli negativi”.
Hai intenzione di tornare a lavorare nel Regno Unito?
“Non penso che tornerò mai in Inghilterra, se non per vacanza. Dopo tre anni, cambiando due città e tre reparti, ho capito che non vedo la futura me in Inghilterra. Non mi ci sarei mai vista a formare una famiglia li, quindi non aveva senso protrarre un’esperienza già perfetta così, tra i suoi alti e bassi. Sono felice della scelta che ho fatto nell’aprile del 2015, la rifarei altre cento volte, ma era solo un tassello di un cammino lunghissimo, che proseguirò in Italia”.
Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society
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