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Che cosa pensano del sistema sanitario inglese gli infermieri italiani nel Regno Unito?

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Che cosa pensano del sistema sanitario inglese gli infermieri italiani nel Regno Unito?
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Ormai da diversi anni, una folta comunità di migliaia di infermieri vive e lavora nel Regno Unito.

Abbiamo chiesto a Luigi D’Onofrio, infermiere presso il Moorfields Eye Hospital di Londra dal 2015 e fondatore, con altri colleghi, del sito web www.italianursesociety.co.uk e del gruppo Facebook Italian Nurses Society, quale sia il punto di vista sulla sanità inglese da parte dei professionisti italiani emigrati in UK.

Cosa pensate della sanità inglese, soprattutto di quella pubblica? Quali sono i pro e contro?

L’NHS è un mastodonte di dimensioni difficilmente concepibili per un italiano. E’ il più antico (è nato nel 1948 e quest’anno ha festeggiato i suoi 70 anni), famoso e grande sistema sanitario pubblico al mondo. E’ il quinto più grande datore di lavoro sul pianeta, visto che conta circa un milione e mezzo di dipendenti.

Stiamo parlando di una macchina immensa, che quindi, pur annoverando molti pregi, non può essere esente da difetti. Per poter funzionare, un colosso simile deve reggersi infatti su una struttura organizzativa e su meccanismi molto rigidi e complessi, che tuttavia, proprio per questo, possono risultare molto farraginosi.

Nonostante ciò, l’NHS è nel suo complesso molto efficiente. Sfido molti ospedali italiani a dimettere il 95% dei pazienti di Pronto Soccorso entro 4 ore od a sottoporli ad un intervento chirurgico programmato, entro 18 settimane dalla richiesta di consulenza del medico di famiglia.

Eppure, questi sono indicatori ministeriali che, ad oggi, numerosi Trust, le aziende ospedaliere inglesi, riescono a rispettare, seppur con sempre maggior fatica e magari rimanendo sotto questi limiti di qualche punto percentuale.

Il vero problema della sanità pubblica inglese è che rappresenta una realtà in chiaroscuro, diretta conseguenza di quello che chiamo “bipolarismo del governo clinico britannico”, fonte di infinite contraddizioni e paradossi anche evidenti. Ritornerò più volte su questo concetto, che sembra accomunare la mentalità di professionisti, manager e politici inglesi.

Non è raro infatti che l’NHS sperimenti modelli organizzativi incredibilmente innovativi, che vedono l’infermiere giocare spesso un ruolo di primo piano, modelli importati anche da Paesi esteri,come nel caso del Buurtzorg olandese, per l’assistenza infermieristica di comunità. Oppure il “one stop shop” danese, che prevede l’esecuzione di una lista completa di indagini diagnostiche, in un solo appuntamento. L’NHS implementa poi celermente terapie estremamente sofisticate, come quella a fasci di protoni (proton beam) per la cura di tumori cerebrali, od ancora tecnologie di intelligenza artificiale.

Poi però alcuni di noi lavorano in ospedali decrepiti, in cui gli spogliatoi per il personale sono striminziti e privi di armadietti in numero sufficiente, in cui fino all’anno scorso ancora si usava Windows Xp come sistema operativo e si inviano tuttora richieste di presa in carico del paziente all’infermiera di comunità via fax. Mi è stato anche raccontato di un ospedale di una grande città, dove i farmaci antiblastici vengono preparati indossando solo guanti e mascherina, ma senza cappa di aspirazione. Per non parlare del fatto che non esistono unità operative riservate ai pazienti con patologie contagiose, mentre invece vengono improvvisate stanze di isolamento in normali reparti di degenza.

E’ forse in virtù di queste contraddizioni che ci siamo tutti un po’ convinti che l’NHS sia una macchina efficiente, ma poco efficace, al contrario del SSN. Un po’ come se fosse un’automobile con un buon motore, ma con carrozzeria e parti interne scassate e vetuste.

Qual’è la vostra opinione sul nursing britannico e del livello di preparazione dei colleghi inglesi e di quelli provenienti da altri Paesi?

E’ nel confronto con i colleghi inglesi e di altre Nazioni che abbiamo osservato i paradossi più scioccanti. La figura dell’infermiere britannico è una delle più avanzate e strutturate al mondo, ma presenta sacche di immobilismo culturale e professionale che ci hanno dapprima lasciato a bocca aperta, creando in seguito non poche frizioni con colleghi e superiori. In UK si trovano infermieri divenuti manager di altissimo livello nell’NHS, altri che conseguono dottorati di ricerca e compaiono in prestigiosi studi internazionali, mentre altri ancora eseguono in autonomia interventi chirurgici e procedure invasive non permesse agli infermieri italiani, come l’estrazione di vene safene per la costruzione di bypass, l’impianto di pacemaker, l’esecuzione di iniezioni intravitreali. Però può accadere di andare a lavorare in una medicine unit, insieme a colleghi che rifanno letti e discettano sui gruppi Facebook dell’angolo mitrale, che ritengono che l’igiene dei pazienti sia un atto assistenziale fondamentale per valutare la cute del paziente e che magari, a ora di pranzo, indossano con entusiasmo la mantellina di plastica (apron) e dispensano il vitto. Esattamente come avviene in Italia, dove però abbiamo coniato il termine “demansionamento”, che non trova corrispondenza nella lingua inglese, seppure il demansionamento esista e come: il problema è che i colleghi inglesi non lo vedono, mentre noi, che ci siamo abituati e lo abbiamo visto portato alle estreme conseguenze, lo vediamo davanti a noi. E non lo tolleriamo. Non abbiamo lasciato la nostra terra per venire a rifare letti nel Regno Unito. Il risultato è che presto gli italiani si stancano di realtà come quelle di medicina e chirurgia generale, dove questo fenomeno è più marcato, e si muovono presto verso unità specialistiche (oncologia, endoscopia), verso la sala operatoria (theatre), oppure in area critica: terapia intensiva e Pronto Soccorso (A&E).

In questi contesti è più facile apprendere competenze tecniche e teoriche avanzate ed ottenere progressioni di carriera, attraverso corsi di specializzazione o master, cui molti italiani chiedono di partecipare, con insistenza e fin da subito (i corsi sono pagati dagli ospedali).

Siamo qui per evolverci, assumendoci le nostre responsabili; per fortuna, in UK la via d’uscita dal demansionamento ed al contempo per l’avanzamento di carriera esiste: bisogna solo saper cogliere le opportunità che si presentano. Vedremo se la recente introduzione di nuove figure di supporto, come il nursingassociate, libererà gli infermieri dalle incombenze assistenziali di base, o se complicheraulteriormente la situazione.

Un altro aspetto sconcertante del nursing inglese è l’aderenza ossessiva alle policies, i protocolli di reparto. È pur vero che forniscono una eccellente copertura legale nel caso in cui si verifichi un incidente, ma è altrettanto vero che le policies talvoltasono incomprensibili, oppure non aggiornate alle ultime evidenze scientifiche: rispettarle macchinosamente significa chiudere in un cassetto il critical thinking, il pensiero critico, che invece ci dovrebbe sempre contraddistinguere, e limitarsi ad un “così si è sempre fatto, ma in modo più formale. Quando abbiamo contestato le policies e prodotto le evidenze scientifiche, abbiamo creato più di un imbarazzo. Mi spiace notare che nelle altrecomunità straniere, ma anche negli stessi colleghi britannici, si riscontri maggiore passività intellettuale, sotto questo profilo. Così come l‘assurda – ai nostri occhi – necessità di conseguire certificazioni post laurea per eseguire atti tecnici basilari per la nostra professione, come l’eseguire prelievi ematici o l’incannulare, diventa alle volte un motivo, o forse un alibi, per rifiutare l’esecuzione di determinate attività. In Italia, sarebbe del tutto inaccettabile. Ho parlato con colleghi che si sono laureati senza aver mai eseguito non solo prelievi ematici, ma anche iniezioni intramuscolari su un essere umano. Altri, con 20 anni di carriera alle spalle, hanno rifiutato di eseguire un prelievo ematico, perché il loro training era scaduto. È questo il più grande gap della formazione universitaria britannica, focalizzata sulla pianificazione assistenziale e sulla comunicazione, ma assolutamente carente nella preparazione tecnica.

Vorrei porre l’accento su un‘ultima questione: l’ennesima dicotomia, paradosso o chiaroscuro, che dir si voglia, relativamente alle forme di autotutela della categoria infermieristica, specie nel caso in cui un professionista venga coinvolto nell’accertamento di eventuali responsabilità legate a danni cagionati ai pazienti. Benché l’NHS sventoli la bandiera della non colpevolizzazione del personale, della trasparenza e dell’apertura, in alcuni ambienti di lavoro avviene proprio l’esatto contrario. L’NMC, il Registro infermieri, ha inoltre adottatotalvolta, negli ultimi anni, decisioni contraddittorie, troppo benevoli od, al contrario, sproporzionate rispetto alla gravità della colpa ed al vulnus cagionato dall’infermiere al paziente. Non è un caso che, a seguito di una serie di critiche, l’NMC abbia appena rinnovato le sue regole processuali. Aggiungiamo, specie in contesti di provincia, una occasionale (per fortuna) vena di discriminazione verso l’infermiere straniero che viene dall‘Italia, e si comprenderà come, alle volte, il clima lavorativo possa esserepesante, tanto che ci sono state, in passato, fughe collettive da alcuni ospedali.

Quali sono, a vostro parere, le prospettive future dell’NHS?

La sanità pubblica inglese sta vivendo un periodo di profonda crisi, testimoniata soprattutto dalle winter crisis, ovvero il sovraffollamento di reparti e Pronto Soccorso (A&E), nel periodo in cui l’epidemia influenzale raggiunge il suo picco. Lo scorso inverno è stato caratterizzato dal verificarsi di quella che molti commentatori hanno definito “la tempesta perfetta”: la concatenazione di tagli al sistema sanitario decisi dai Governi Tories, le carenze organiche nel personale infermieristico, le ondate di maltempo, la diffusione dell’epidemia influenzale hanno generato situazioni di caos totale, con ambulanze lasciate in sosta per ore agli ingressi degli ospedali e pazienti sistemati su barelle, in condizioni precarie, anche per intere giornate. Scene da girone dantesco, che testimoniavano un drammatico scadimento della qualità assistenziale, in grado di suscitare scandalo anche in Italia, nonostante vi siamo ormai assuefatti, figuriamoci nel Regno Unito. Dove infatti sono finite sulle prime pagine dei quotidiani.

Responsabili di tutto questo sono state ovviamente le politiche di austerity del Governo Tory, che in nome del contenimento delle spese, esattamente come avvenuto in Italia, hanno portato alla riduzione dei finanziamenti ai servizi di comunità, soprattutto quelli psichiatrici, alla riduzione dei posti letto disponibili ed all’aggravamento delle carenze organiche, principalmente del personale medico ed infermieristico, attraverso provvedimenti come il taglio delle bursaries (le borse di studio), ai giovani studenti dei corsi universitari di nursing. Non va però tralasciata, in questo contesto, la remissività, ai limiti della compiacenza, della grande maggioranza dei sindacati inglesi, compreso l’RCN, il più grande sindacato infermieristico al mondo. Quest’ultimo, in particolare, è ora nell’occhio del ciclone, a seguito del clamoroso pasticcio combinato con l’approvazione del nuovo contratto collettivo pubblico del comparto sanità (ebbene sì, esiste anche in UK).

Nonostante l’aumento promesso dal Governo apparisse a moltidel tutto inadeguato, specie considerando che era il primo dopo 7 anni di stallo, infatti, i sindacati hanno esercitato forti pressioni sui loro iscritti, affinché l’accordo venisse approvato. Quando poi, per motivi ancora da chiarire, moltissimi infermieri si sono ritrovati in busta paga addirittura la metà di quanto preventivato, si è scatenato un inferno di contestazioni. Il 28 settembre, a Birmingham si terrà un meeting straordinario RCN, in cui rappresentanti da tutto il Regno Unito discuteranno l‘approvazione di una mozione di sfiducia contro la dirigenza.

Tutte queste vicissitudini stanno demotivando molti infermieri inglesi giovani e meno giovani, abbandonano in massa laprofessione: 3.000 solo l’anno scorso. Ovviamente, tutto ciò non fa che aggravare le carenze di personale infermieristico. Qualche bagliore di speranza si è riacceso con l’arrivo del nuovo Secretary of Health, Matt Hancock, che ha promesso nuove iniezioni di risorse finanziarie e forti investimenti nelle tecnologie digitali.

In ogni caso, sono convinto che l’NHS abbia ancora speranze di sopravvivenza, molte più di quelle che ha il SSN.

Il Brexit influirà sul quadro generale?

Il Brexit sta già pesantemente influenzando, ovviamente in negativo, la situazione. L’introduzione dell’obbligo sulla certificazione linguistica e le incertezze legate all’uscita della Gran Bretagna dal Regno Unito, nel marzo 2019, hanno fatto segnare da tempo un tracollo delle nuove iscrizioni al registro da parte di infermieri comunitari, diminuite del 96% nel solo 2016/17. Chiaramente, la chiusura del rubinetto europeo ha causato ulteriori difficoltà e preoccupazioni, rispetto alla necessità di colmare le lacune di personale infermieristico. La reazione concertata di Governo e management dei Trust NHS, tuttavia, non mi ha incoraggiato affatto. A fronte di dichiarazioni genericamente rassicuranti sull’importanza del nostro contributo, come quelle pronunciate più volte dal Primo Ministro Theresa May e, pochi giorni addietro, anche dalla segretaria pro tempore del sindacato RCN, anche in questo contesto i fatti hanno dimostrato ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, l’ambiguità e la contraddittorietà delle scelte politiche adottate.

Basti pensare che, mentre non si riesce a trovare uno straccio di accordo per continuare a favorire il flusso di professionisti europei high skilled, il Department of Health, ovvero il ministero della Salute, si è affrettato a varare nuovi accordi e ad avviare piani di reclutamento da Paesi come la Giamaica e le Filippine. In secondo luogo, mi capita sempre più spesso di leggere offerte di lavoro per infermieri extracomunitari particolarmente vantaggiose e comprensive di volo, alloggio, corsi di lingua pagati ed altri benefits, mentre i giovani italiani ed europei sono spesso lasciati in balia delle acque. In buona sostanza, il Regno Unito è tornato a fare l’occhiolino alle sue ex colonie, ma mi sento di dire che voltare le spalle ai professionisti europei, considerato non solo il nostro, ma anche il livello di preparazione dei colleghi spagnoli o rumeni, ad esempio, è un errore strategico madornale.

Vorrei porti una domanda che non è strettamente attinente al tema, ma che ne costituisce una diretta conseguenza: credi che il patrimonio di competenze e di conoscenze che state accumulando sul sistema sanitario britannico potrà essere importato in Italia, per contribuire a risolvere le inefficienze del SSN e per sviluppare la professionalità degli infermieri italiani?

Alla luce di ciò che vedo oggi, assolutamente no. Anzi, stiamo perdendo un tesoro. Innanzitutto perché la medicocentrica politica sanitaria italiana è del tutto refrattaria al recepimento di modelli organizzativi anglosassoni, che vedono spesso un potenziamento delle responsabilità del ruolo infermieristico. Nonostante tali modelli presentino comprovata efficacia, leggo ancora anacronistiche critiche e proteste di parte della classe medica ogni volta, ad esempio, che si propone la creazione di ambulatori a gestione totalmente infermieristica o si progetta di estendere le competenze degli infermieri, sulla base di protocolli concordati. Per giunta, noto che gli stessi infermieri oriundi, ovvero quelli che scelgono di rientrare in Italia, tornano ad essere inglobati in un ingranaggio di cui sono insignificanti rotelle.

Qualunque cosa abbiano visto ed appreso nel Regno Unito, rimane confinata ai loro ricordi personali. Manca, infatti, un ponte, un legame costante tra la categoria infermieristica italiana e quella britannica. Non esiste un centro studi, non esiste un’organizzazione che ci rappresenti. Resomi conto di questo vuoto, ho deciso di iniziare a colmarlo, grazie anche al supporto di alcuni colleghi emigrati come me, attraverso la fondazione della Italian Nurses Society.

Il nostro scopo primario è condividere e diffondere informazioni sulla sanità inglese e sul nursing britannico, per far conoscere un altro modello di infermieristica, far sapere che un altro modo di essere infermieri, protagonisti della sanità con competenze specialistiche avanzate, è possibile ed esiste già, anzi funziona bene. Potrebbe funzionare addirittura benissimo se, anche richiamando quanto osservato in precedenza, ai modelli organizzativi britannici affiancassimo la straordinaria flessibilità, intuitività, competenza e resilienza dell’infermiere italiano. Il mix che ne risulterebbe sarebbe straordinario e ne beneficerebbe l’intero Sistema Sanitario nazionale, con outcome invariati, se non migliorati, minori spese di gestione e maggiore soddisfazione del personale.

Noi italiani siamo in gamba e ce lo riconoscono. Il mio ex coordinatore (in UK si parla di manager), una persona che per me rappresenta un ineguagliato modello di riferimento in ambito professionale, mi suggeriva, pochi giorni fa: “Think like an Italian, act like a British”.

Proprio in rappresentanza della Italian Nurses Society, ho ricevuto segnali incoraggianti di apertura ad un costruttivo e proficuo confronto, dopo essere stato ricevuto dal Comitato Centrale Fnopi, alla fine di luglio. Credo che, se l’infermieristica italiana e tutto il sistema sanitario intenda davvero evolversi, dovrebbe attingere dal suo vero ed unico modello di riferimento, ovvero dall’NHS, che – non dimentichiamocelo – ha ispirato e modellato la nascita del nostro Servizio Sanitario Nazionale, nel lontano 1978.

Mi preoccupa invece constatare che, sempre più spesso, studi e ricerche prendano in considerazione i sistemi sanitari tedesco ed americano, che sono a forte impronta privatistica.

Non sono d’accordo con questa impostazione: la sanità può seguire alcuni parametri aziendalistici, ma non è un’azienda. Quando lo diventerà, sarà una vittoria per alcuni ricchi capitalisti, ma una sconfitta per il resto della società. Sono orgoglioso di lavorare nell’NHS proprio perché invece eroga un’assistenza sanitaria gratuita a tutti, molto più del nostro SSN.

Un’ultima domanda. Consiglieresti ancora ad un infermiere italiano in terra britannica?

Nonostante gli aspetti negativi della realtà inglese e i dubbi sul futuro, essere infermiere all’estero è un’esperienza che apre le porte del mondo e della mente, per cui la consiglio vivamente, ma solo a chiunque senta un’autentica spinta interiore a farlo. Occorrono estrema flessibilità e capacità di adattamento, propensione al sacrificio. Si svolge una professione già di per sé complessa, per di più in una lingua straniera, in un sistema con regole differenti ed in una realtà per giunta multiculturale, come quella delle grandi metropoli britanniche. La sfida è molto impegnativa e bisogna saper digerire anche le sconfitte, che saranno inevitabili, per ripartire con sempre maggiore grinta, sfuggendo invece alle batoste, quelle che ti fanno tornare a casa pieno di rabbia ed in lacrime. Non voglio però dipingere un quadro melodrammatico: non è impossibile farcela, anzi. Diversi colleghi sono già lanciati, dopo pochi anni, in una brillante carriera ed alcuni hanno raggiunto traguardi impensabili in Italia. Come infermieri italiani, abbiamo vissuto esperienze all’estero solo negli ultimi cinque anni e solo per via della crisi economica. Siamo usciti dal nostro orticello con gravissimo ritardo rispetto ad altre professioni, come quella medica, che invece vede molti giovani recarsi in prestigiose realtà ospedaliere da decenni. Meglio così: il flusso migratorio è nato da una necessità, ma se la categoria infermieristica e, in primo luogo, la nostra rappresentanza professionale in Italia, sapranno cogliere l’immenso valore dell’apertura ai rapporti con realtà estere, allora l’iniziale bisogno si trasformerà, negli anni, in una straordinaria opportunità di evoluzione.

Simone Gussoni

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