Il privilegio di essere infermieri in tempi bui
Un grande intellettuale del nostro tempo ha scritto che solo poche persone possono vantare il privilegio, il prestigio o l’onore di svolgere un lavoro importante e vantaggioso per l’intera comunità, in quanto, secondo lui,
“quasi mai ci si attende che il lavoro nobiliti chi lo esercita, lo renda una persona migliore” [1].
Qualcuno ha optato per la professione infermieristica quale ripiego, qualcun altro unicamente per avere uno stipendio sicuro, ma molti …molti l’hanno scelta per motivi etici. Lungi da noi promuovere una visione della professione basata su retaggi mistico-missionari: stiamo parlando di quella spinta interiore a fare del bene che è propria di molte persone le quali attribuiscono valore al loro tempo di vita e cercano il modo migliore (per sé e per gli altri) per impiegarlo.
Secondo Luigina Mortari, a muovere chi si dedica alle pratiche di cura è un desiderio di fare qualcosa che fa stare bene; la stessa aggiunge poi che
“volere il bene non è sentimentalismo, è il cuore dell’etica” [2].
Lavorare eticamente, oggi, è difficile; questa difficoltà non nasce da un errore nell’evoluzione professionale, la quale abbia portato i professionisti a distaccarsi dal malato per snobismo o fallace interpretazione del proprio ruolo.
Pensarla così significa alimentare un fraintendimento che nuoce alla motivazione dei professionisti e che alimenta rabbia, malcontento e disgregazione.
Gli infermieri lo sanno che i piccoli gesti di cura sono importanti, lo sanno che pre-occuparsi (e non unicamente occuparsi) del paziente comporta attenzione al suo vissuto, alla comunicazione anche non verbale, ai bisogni inespressi. Sanno che tutto ciò deve assolutamente rientrare all’interno della pianificazione assistenziale della quale l’infermiere è l’unico responsabile. Attribuire eventuali mansioni al personale di supporto viene più tardi; prima bisogna aver preso in considerazione il bisogno, aver deciso come provvedervi e quindi se farlo personalmente oppure no.
Ma andiamo avanti. Il demansionamento entra in gioco dopo; subentra quando l’infermiere non ha scelta. Quando da professionista diventa mestierante, operaio, esecutore; quando il tempo aziendale non consente alcuna presa in carico, alcuna relazione basata sull’ascolto e sull’empatia… perché manca il personale e bisogna arrivare a svolgere almeno quei tecnicismi essenziali senza i quali la cartella clinica resterebbe intonsa.
QUI arriva il demansionamento.
lo chiamiamo così perché, vale la pena ripeterlo per i duri d’orecchio, si tratta di un termine appartenente al diritto del lavoro e con un significato ben preciso, comprendente la lesione alla dignità del lavoratore.
Dignità del lavoratore.
Eh.
Ma aspettate un attimo.
Dignità del lavoratore significa dignità dell’infermiere.
E lesione alla dignità dell’infermiere significa lesione alla dignità del paziente, malato, assistito, cittadino, PERSONA.
Ecco.
E’ questa lesione che chi lotta contro il demansionamento vuole prevenire e combattere.
La lotta è per avere più personale, più tempo, più vicinanza al malato; per potersi sedere ad ascoltare la sua esperienza di malattia e renderlo davvero soggetto partecipe e non oggetto passivo di una qualche prestazione – dimenticando che la base di quanto siamo chiamati a compiere risiede nella relazione; per poter svolgere tutte le fasi del processo assistenziale così come è stato insegnato all’interno delle università: accertamento, diagnosi, pianificazione degli outcome, pianificazione degli interventi, valutazione.
La lotta è per poter essere professionisti.
Ma è difficile.
Questa difficoltà è inasprita dalla mancanza di unione tra gli infermieri. Alcuni si lasciano andare a facili giudizi, ma in molti avrebbero voglia di prenderli gentilmente per mano e condurli con sé nel loro quotidiano.
Tra quelle stanze.
Nelle corse convulse contro l’efficientismo, contro il moral distress.
Per chiedere loro di scrivere, teorizzare, parlare a partire dalla realtà.
Non solo dalla realtà che hanno vissuto loro tempo addietro, o che hanno il privilegio di conoscere attualmente all’interno di rari contesti fortunati, ma da quella della maggioranza.
Guardandola in faccia, questa realtà.
Ricordiamoci che abbiamo tra le mani una professione la quale rende un grande servigio alla comunità ed è meravigliosa.
Sempre.
Anche quando agita in tempi bui.
Daniela Pasqua
[1] Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza 2011
[2] Luigina Mortari, La pratica dell’aver cura, Mondadori 2006
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