Riprendiamo un articolo de La Stampa sul dibattito in tema di terapie.
I Nobel per la medicina assegnati agli “eroi” dell’immunoterapia contro il cancro hanno scatenato aspettative che la scienza non vorrebbe disattendere. Tasuku Honjo, che divide il riconoscimento con l’americano James Allison, ha dichiarato che «entro il 2050 tutte le forme di tumore potranno essere sconfitte con l’immunoterapia».
Nell’ebbrezza del Nobel molto è possibile, ma poi bisogna fare i conti con la realtà. E la realtà parla di mille nuove diagnosi di tumore maligno al giorno in Italia e 18 milioni l’anno nel mondo. La mortalità in diminuzione non è un successo gratuito, vista la qualità di vita del malato (e della famiglia) che cambia per sempre. Il cancro è potenzialmente la patologia cronica più prevenibile, ma attenzione alle bufale: non esiste uno stile di vita cancer-free, e i farmaci, accusati spesso di essere poco efficaci e di provocare effetti collaterali, sono le armi migliori. Per sapere fino a che punto e che cosa dobbiamo aspettarci dalla ricerca, abbiamo chiesto un report alla Società italiana di farmacologia.
Chemio e radio. Le cellule tumorali sono pressoché indistinguibili da quelle sane, se non per alcuni “errori” nel Dna, ovvero differenze patologiche di dimensioni molecolari. Il vecchio paradigma alla base di chemio e radioterapia del cancro prevedeva quindi di “bombardare” l’organismo intero. Un razionale c’era, perché le cellule malate si moltiplicano più velocemente, e quindi sono più esposte agli effetti del “veleno”, ma l’approccio resta grossolano. «In 20 anni i progressi nella genetica, e quindi nella biologia dei tumori, hanno permesso di scoprire “bersagli” che si trovano solo sulle cellule tumorali – spiega Gianni Sava, farmacologo all’Università di Trieste e membro del Gruppo di lavoro di Farmacologia oncologica della Sif –, permettendo di creare i primi farmaci selettivi». È il caso di Imatinib, un “interruttore” in grado di interferire con il metabolismo delle cellule tumorali. E così che la terapia di alcune leucemie e alcuni tumori gastrointestinali è stata rivoluzionata.
Terapia genica. Se il cancro è il risultato di errori nel Dna, perché non “curare” il Dna stesso? La complessità di questa molecola dovrebbe dare da sé la misura della difficoltà: correggere la moltitudine di geni implicati nella malattia, per milioni di cellule coinvolte, è fantascienza. Tecnicamente, i geni malati possono essere corretti e inoculati, ma la modifica non “arriva” a tutte le cellule. Qualche passo è stato fatto con la terapia Chimeric antigen receptor T-cell, la Car-T: invece di intervenire sul Dna delle cellule malate, si interviene sul Dna delle cellule che possono combattere quelle malate, i linfociti, modificate per istruirle a riconoscere i tumori. Attaccano la malattia, ma provocano il rilascio di citochine, molecole tossiche. Inoltre i costi sono proibitivi: 475mila dollari (Novartis) e 373mila dollari (Gilead), negli Usa, e 282mila sterline per l’unica tipologia approvata in Europa, nel Regno Unito.
Vaccini e anacorpi. Trattare le cellule tumorali come virus e batteri sarebbe un’ottima idea. Peccato che assomigliano alle cellule sane, e quindi gli anticorpi anti-tumore possono confondersi. A complicare il tutto è il fatto che le cellule tumorali sono furbe: mandano segnali che “addormentano” il sistema immunitario. La chiave di volta sarebbe individuare antigeni (le strutture sui tumori capaci di essere riconosciute dagli anticorpi anti-tumore), e quindi bersagli ultra-specifici, presenti solo nelle cellule malate. «Così sarebbe possibile indirizzare anticorpi che, a loro volta, legano sostanze tossiche solo verso la malattia – spiega Sava –. Una strategia che sta dando risultati per leucemie, linfomi e carcinoma della mammella». L’immunoterapia oncologica è nelle fasi iniziali, precisa Enrico Mini, professore di oncologia medica all’Università di Firenze, anch’egli membro del Gruppo di farmacologia oncologica della Sif: «Le mutazioni, cioè i bersagli specifici, cambiano da tumore a tumore, da paziente a paziente, e spesso acquisiscono resistenza ai farmaci, costringendoci a terapie sempre nuove».
Terapie su misura. Dato che le mutazioni nel Dna sono diverse da tumore a tumore e che ciascuno ha un patrimonio genetico diverso, la stessa malattia può manifestarsi in modo diverso da individuo a individuo. Così ci sono migliaia di quadri clinici unici, da trattare con un numero di farmaci limitato. Ma un farmaco diverso per ogni paziente non è alla portata della scienza o della tecnologia. La personalizzazione, semmai, porterà a un aumento dei farmaci mirati e rivoluzionerà la prevenzione, come spiega Mini: «Per alcuni tumori è già possibile evidenziare precocemente la presenza di mutazioni a parare dal “Dna tumorale circolante”, cioè il materiale genetico rilasciato nel sangue. Questo tipo di screening potrebbe rilevare tumori allo stadio iniziale, ma ha un costo alto». Il futuro, probabilmente, è anche nelle nanotecnologie: «Si studiano dispositivi come “sentinelle”, basati su materiali come le molecole. Attivano sensori capaci di captare mutazioni o proteine indicative del tumore». Nel frattempo, ricorrere alla migliore sinergia tra tutte le strategie terapeutiche è lo strumento migliore a disposizione.
Redazione Nurse Times
Fonte: La Stampa
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