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Il datore di lavoro può imporre il vaccino anti-Covid?

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Può un datore di lavoro imporre il vaccino anti-Covid? La questione, molto delicata, è agli inizi visto l’attuale carenza di dosi del farmaco ma già sono stati sviluppati i primi pareri favorevoli alla vaccinazione obbligatoria dei dipendenti e contrari.

I pareri si basano sull’articolo 32 della Costituzione che sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, ivi comprese le vaccinazioni, salvo quello per il quale la legge istituisca un obbligo.

Ci son casi di vaccinazioni rese obbligatorie per legge?

L’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti: contro la difterite (1939), contro il tetano (1963-1981), contro la poliomielite (1966), contro l’epatite virale B (1991), contro la tubercolosi (2000), contro la pertosse, la poliomielite, l’epatite B, l’Haemophilus influenzae tipo b, il morbillo, la parotite, la rosolia e la varicella, oltre che ancora contro epatite B, difterite e tetano (2017).

A tutt’oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19, avendo il vaccino stesso incominciato a essere disponibile soltanto da poco tempo e in poche quantità.

Il datore di lavoro può imporre il vaccino anti-Covid

Il datore di lavoro può imporre il vaccino anti-Covid secondo Pietro Ichino, professore di diritto del lavoro presso l’Università statale di Milano. “L’opinione – scrive su quotidianogiuridico.it – è fondata su alcune norme che disciplinano il contratto di lavoro: due di carattere generale, che obbligano rispettivamente il datore e il prestatore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda a beneficio di tutti coloro che in essa lavorano, e una di carattere specifico riferita all’ eventuale necessità di una vaccinazione”.

Il datore di lavoro non può imporre il vaccino anti-Covid

Di parere contrario è Oronzo Mazzotta, professore di diritto del lavoro presso l’Università di Pisa. “I parametri di riferimento per impostare una risposta sono anzitutto l’art. 32 Cost. e l’art. 2087 cod. civ. – spiega Mazzotta sempre su quotidianogiuridico.it -il primo, come è noto, al secondo comma, prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Il secondo impegna il datore di lavoro ad «adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro»”.

“Orbene – continua – è pacifico che l’art. 2087 non può essere considerato la “disposizione di legge” cui allude la riserva formulata dall’art. 32 Cost., dovendo questa consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione. D’altra parte, è sì vero che il rispetto dell’obbligo di cui all’art. 2087 impone al datore di conformarsi al criterio della “massima sicurezza possibile”, ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’”esperienza e la tecnica”. Sennonché nel nostro caso poco o nulla si sa sul vaccino ed i suoi effetti, ma soprattutto gli scienziati si dividono anche sui mezzi di propagazione del virus. Mancherebbero quindi quei dati di acquisita “esperienza e tecnica”, che potrebbero imporre al datore l’adozione di tale misura. Così come il lavoratore potrebbe addurre, se non il rispetto della riservatezza, particolari condizioni personali che possono sconsigliare di sottoporsi alla vaccinazione”.

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