È stato indetto da Fnomceo, in collaborazione col Ministero della Salute, un corso a distanza per insegnare ai medici come comunicare coi pazienti. L’iniziativa ha riscosso un notevole successo: in un anno, ben 22.700 camici bianchi si sono iscritti.
C’è mica un problema di comunicazione tra medici e pazienti? Sembra proprio che sia così, quando non c’è un infermiere in mezzo a fare da traduttore, da interprete o da tramite. Se ne sono accorti quelli di Fnomceo, che hanno indetto, insieme al Ministero della Salute, un corso di formazione per insegnare ai camici bianchi come meglio rapportarsi con l’utenza; corso che ha avuto un enorme successo: “Sono quasi 23mila, in un solo anno, quelli che hanno aderito al corso di formazione continua a distanza che abbiamo organizzato per far apprendere al meglio le tecniche comunicative col paziente e la sua famiglia”, afferma infatti Roberta Chersevani, presidente della Federazione dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Fnomceo, in un’intervista rilasciata all’ANSA.
La comunicazione medico-paziente è di fondamentale importanza ai fini diagnostico-terapeutici, così come quella infermiere-utente lo è nella relazione d’aiuto; e necessita di caratteristiche imprescindibili quali empatia, dialogo, scambio e relazione. Cose, queste, che a volte vengono a mancare per diverse cause: assenza di tempo, di sensibilità, di tatto, o l’ostentazione di una poco velata “superiorità” (della serie: io faccio uno scarabocchio e/o sparo 4 nozioni, tanto poi c’è l’infermiere che spiega, media, tranquillizza) e delle giuste tecniche per farlo. Ma che, quando ci sono, migliorano notevolmente l’outcome delle cure.
Ad esempio, un’analisi comparativa (che ha selezionato 13 studi clinici) pubblicata su Plos One e portata avanti dai ricercatori del Massachusetts General Hospital, ha infatti affermato che sottoporre i medici ad un training per prestare attenzione alle emozioni dei pazienti migliorava significativamente la prognosi, “dello stesso ordine di grandezza di molti trattamenti medici standard”.
Altresì, secondo i risultati di un’indagine internazionale su 10.000 persone (presentata nel 2015 da IntroDia al Congresso dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete), una comunicazione ‘incoraggiante’ e ‘collaborativa’ da parte del medico sarebbe correlata ad una maggiore aderenza alla terapia.
Continua così la Chersevani: “Una buona relazione aiuta a sviluppare un rapporto di fiducia tra medico e paziente e se il paziente si fida del medico è anche più predisposto a seguirne le indicazioni terapeutiche e meno incline a una relazione conflittuale, che può sfociare in un aumento anche delle denunce. In ultimo, una buona comunicazione riduce l’impatto della medicina difensiva che ha un costo altissimo per la sanità pubblica”.
Che tutto ciò, immaginando il paziente al centro del processo di cura (perché è lì che dovrebbe SEMPRE stare), sia utilissimo a spianare la strada verso il raggiungimento degli obiettivi diagnostico-terapeutici, siamo tutti d’accordo. Anche perché a sancire che “il tempo di comunicazione è tempo di cura“, è proprio il codice deontologico medico. Ma per quanto riguarda una eventuale diminuzione delle denunce e della conseguente medicina difensiva… chissà. Personalmente lo spero, anche se ho paura che il problema abbia oramai insinuato da tempo le proprie radici nella cultura del nostro paese.
Fonti: ANSA, Plos One, IntroDia
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