L’analisi in questione è una ricerca ancillare di VITAL (Vitamin D and Omega-3 Trial). La SIOMMMS prende posizione.
Sull’autorevole rivista New England Journal of Medicine è stato pubblicato un recente studio che ha valutato la supplementazione con vitamina D nella prevenzione del rischio di fratture. Le conclusioni del lavoro, riassumibile nella sostanziale inutilità del farmaco per la riduzione del rischio di frattura, hanno avuto molta risonanza a livello mediatico e non sono mancate anche le reazioni di esperti italiani, che invitano a una corretta analisi della pubblicazione.
L’analisi in questione è uno studio ancillare di VITAL (Vitamin D and Omega-3 Trial), un trial randomizzato e controllato che ha valutato se la supplementazione di vitamina D3 (2.000 UI al giorno), di acidi grassi n-3 (1 g al giorno), o di entrambi, fosse in grado di prevenire il cancro e le malattie cardiovascolari in uomini (dai 50 anni in avanti) e donne (di almeno 55 anni) statunitensi.
Nello studio i ricercatori hanno valutato se l’integrazione con vitamina D3 (colecalciferolo), senza la concomitante somministrazione di calcio, fosse in grado di ridurre il rischio di fratture rispetto al placebo, specificando però che “i partecipanti non sono stati reclutati sulla base di carenza di vitamina D, massa ossea ridotta o osteoporosi”. Gli endpoint primari erano le fratture incidenti totali, non vertebrali e dell’anca sia da fragilità che traumatiche.
Differenza non significativa vs placebo – In un follow-up mediano 5,3 anni, su quasi 26mila soggetti sani coinvolti (età media 67,1 anni, 50,6% donne, 20,2% neri), ci sono state 1991 fratture incidenti, a carico di un totale di 1.551 partecipanti. Rispetto al placebo, la supplementazione con vitamina D3 non ha mostrato un effetto significativo sulle fratture totali (che si sono verificate in 769 su 12.927 partecipanti nel gruppo vitamina D e in 782 su 12.944 partecipanti nel gruppo placebo, hazard ratio, HR, 0,98, P=0,70), sulle fratture non vertebrali (HR 0,97, P=0,50) e sulle fratture dell’anca (HR 1,01, P=0,96).
Gli autori hanno concluso che “l’integrazione di vitamina D3 non ha comportato un rischio di fratture significativamente inferiore rispetto al placebo tra gli adulti di mezza età generalmente sani e gli anziani che non sono stati selezionati per carenza di vitamina D, massa ossea ridotta oppure osteoporosi”.
Il commento dell’esperto – “Vi sono alcuni aspetti discutibili nello studio, come il fatto che i livelli di vitamina D fossero disponibili su 17mila soggetti all’inizio della sperimentazione e solo su 6.000 alla fine, come anche l’inclusione di tutte le fratture e non solo quelle da fragilità”, ha spiegato Iacopo Chiodini, professore di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano e presidente della SIOMMMS (Società italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro), intervistato da PharmaStar.
“Il reale problema – ha aggiunto – è tuttavia il tipo di obiettivo scelto, che è metodologicamente sbagliato. In sostanza i risultati dicono semplicemente che, se sei sano, non hai l’osteoporosi e non hai deficit di vitamina D, la supplementazione non serve a ridurre il rischio di qualsiasi frattura, non solo da fragilità. Era in realtà un risultato abbastanza atteso. Infatti se voglio sapere se un farmaco previene una malattia lo devo testare in soggetti a rischio di avere quella malattia. Non mi posso aspettare che un agente farmacologico funzioni se lo somministro a chi non ne ha bisogno. Quindi, era prevedibile che dare vitamina D, come in questo studio, a soggetti non carenti e non a rischio di frattura non portasse ad alcun effetto in termini di riduzione del rischio di frattura”.
Gli autori, in realtà, hanno fatto aggiustamenti per i livelli di vitamina D, ha fatto presente il professore. Ma in realtà i pazienti affetti da deficit di vitamina D erano solo una minima parte della popolazione inclusa e della quale non era specificato se osteoporotica o meno. Di fatto i risultati di questo studio non hanno alcuna rilevanza per coloro che sono carenti di vitamina D, tanto più se con osteoporosi, e se la vitamina D viene prescritta nel rispetto della nota 96.
“Alla luce delle evidenze emerse dai numerosi studi condotti in maniera metodologicamente corretta – ha concluso il professore – è importante ricordare che il deficit di vitamina D nei soggetti con osteoporosi si associa a un aumento del rischio di frattura e, viceversa, che un’adeguata supplementazione con vitamina D nei soggetti carenti, associata a un adeguato introito di calcio, riduce il rischio di qualsiasi frattura. Infine ricordiamo che livelli inadeguati di vitamina D e ridotto apporto di calcio sono le cause principali di una mancata risposta della terapia per l’osteoporosi e che recentissimi dati suggeriscono inoltre che l’ipovitaminosi D ha delle conseguenze anche extra-scheletriche, soprattutto nel campo delle malattie autoimmuni e infettive”.
Il consiglio direttivo della SIOMMMS ha commentato i risultati dello studio in questione, concludendo che “i risultati non hanno alcuna implicazione per i pazienti nei quali la vitamina D sia prescritta con nota AIFA 96, che indica la supplementazione in soggetti con livelli plasmatici di vitamina D <20 ng/ml e, indipendentemente dai livelli di vitamina D, in pazienti affetti “da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate”. Anche il Gruppo Italiano Bone Interdisciplinary Specialists (GIBIS) ha inviato ai propri soci un comunicato, dichiarandosi allineato con il commento espresso in merito allo studio dal consiglio direttivo della SIOMMMS.
Gli stessi autori hanno contingentato i risultati – In una dichiarazione il primo autore Meryl LeBoff, responsabile del dipartimento Calcium and Bone nella divisione di Endocrinologia del Brigham and Women’s Hospital, ha specificato: “Questi risultati non si applicano agli adulti con carenza di vitamina D o bassa massa ossea o osteoporosi. La maggior parte dei partecipanti allo studio non aveva carenze e potrebbe aver già raggiunto il livello di vitamina D necessario per la salute delle ossa. I nostri studi in corso stanno cercando di valutare se i livelli di vitamina D libera o la variazione genetica nell’assorbimento, nel metabolismo o nella funzione dei recettori della vitamina D forniranno informazioni sulle persone la cui salute muscoloscheletrica potrebbe trarre un beneficio dalla supplementazione”.
Tra i limiti dello studio segnalati dagli autori, il fatto che è stata valutata solo una dose di vitamina D e che il disegno non prevedeva di testare gli effetti dell’integrazione di vitamina D nei soggetti che ne erano carenti. Infatti solo una piccola percentuale di partecipanti (2,4%) aveva livelli di vitamina D inferiori a 12 ng per millilitro. Hanno inoltre specificato che “i risultati potrebbero non essere generalizzabili agli adulti con osteoporosi o osteomalacia o alle persone anziane ricoverate”.
“Questi dati non significano che i medici dovrebbero smettere di pensare alla vitamina D. Penso che sarebbe il messaggio sbagliato da leggere – ha commentato Baha Arafah, professore di medicina presso la Case Western Reserve University e capo della Divisione di Endocrinologia presso l’University Hospital di Cleveland, Ohio, non coinvolto nello studio -. Se leggi l’articolo, scoprirai che ci sono persone che hanno bisogno di vitamina D, ovvero quelle che ne sono carenti. Suggerirei di non integrare la vitamina D in modo indifferenziato. Userei i marcatori della formazione ossea come parametro per stabilire chi necessita o meno di vitamina D, in particolare osservando l’ormone paratiroideo”.
Redazione Nurse Times
Fonte: PharmaStar
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