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Un infermiere al processo Morosini: “c’era il defibrillatore ma nessuno l’ha utilizzato”

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Sono passati oramai più di 4 anni da quando Piermario Morosini, giocatore del Livorno, morì su un campo di calcio in seguito ad un arresto cardiaco. Nel processo, che vede imputati diversi medici e che ruota intorno al mancato utilizzo del defibrillatore, è il momento delle deposizioni. Un infermiere volontario, presente quel giorno allo stadio,  ha dichiarato: “c’era una gran confusione e nessuno dava disposizioni”. Il perito della Procura ha invece sottolineato come le procedure seguite siano state “non conformi alle linee guida internazionali”.

Mi capita spesso, nei corsi di rianimazione cardiopolmonare che effettuo in collaborazione col comitato scientifico di cui faccio parte, di voler mostrare a scopo didattico le crude immagini della morte del calciatore Piermario Morosini, deceduto in campo in seguito ad un arresto cardiaco durante la partita Pescara-Livorno del 14 aprile 2012.

Perché? Per mostrare ai discenti, in quella che è stata una situazione di emergenza reale, tutto ciò che NON bisogna assolutamente fare. Eh sì, perché in quei brutti, tristi e tragici fotogrammi, sono concentrati una miriade di errori, anche grossolani, da parte di chi avrebbe potuto e dovuto salvare l’atleta.

Dal momento in cui il giocatore è caduto a terra, infatti, intorno a lui si è generato un autentico e confuso parapiglia dove nessuno, ma proprio nessuno, sembrava sapere con sufficiente certezza cosa fare e quali fossero le decisioni da prendere. Linee guida, protocolli, procedure? Il nulla. Fatto sta che si perse un sacco di tempo prezioso, che non fu utilizzato il defibrillatore e che purtroppo Piermario, all’età di soli 26 anni, morì su un campo di calcio.

L’autopsia accertò che il decesso venne causato da un arresto cardiocircolatorio dovuto ad una cardiomiopatia aritmogena. Una subdola aritmia, quindi, ha verosimilmente stroncato il cuore del povero Piermario. Un cuore giovane, però, che se “resettato” dalla scarica elettrica di una defibrillazione precoce sarebbe potuto ripartire. Per quale motivo, quindi, il giovane non fu subito connesso ad un defibrillatore?

Leila Di Giulio, dirigente della Digos e vice questore aggiunto a Pescara che quel 14 aprile era in servizio presso lo stadio Adriatico, così raccontava qualche mese fa: ”In campo c’erano due defibrillatori gestiti da Croce Rossa e Misericordia. Un terzo defibrillatore era a bordo dell’ambulanza sopraggiunta in seguito”.

Erano ben tre i defibrillatori disponibili, quindi. Ed è proprio intorno al mancato utilizzo del presidio salva-vita, che ruota l’intero processo; processo che vede imputati i medici del Pescara (Ernesto Sabatini), del Livorno (Manlio Porcellini) e del 118 di Pescara (Vito Molfese) con l’accusa di omicidio colposo.

Secondo il perito della Procura, il medico legale Cristian D’Ovidio, Le procedure seguite sul campo da gioco per soccorrere Morosini hanno evidenziato una condotta attiva volta a salvare la vita del giocatore, ma sono risultate non conformi alle linee guida internazionali con riferimento al mancato utilizzo del defibrillatore, che in questi casi e’ indispensabile e alle modalità di rianimazione polmonare, apparse non sufficientemente corrette”.

Tutti i vari momenti della vicenda, da quando Morosini si è accasciato a terra, al ventinovesimo minuto del primo tempo, fino all’arrivo al pronto soccorso di Pescara, sono stati man mano ricostruiti grazie alle testimonianze di chi, in quel dannato giorno, era in servizio allo stadio Adriatico di Pescara.

Marco Di Francesco, infermiere del 118 e volontario della Misericordia, ha dichiarato:

“Quando sono arrivato in campo c’erano già il medico del Pescara Sabatini e quello del Livorno Porcellini, il defibrillatore era aperto all’altezza della testa di Morosini, ma non so se era acceso, e io ho segnalato per due volte che c’era il defibrillatore, ma nessuno lo ha utilizzato e nessuno mi ha detto di utilizzarlo”…”Normalmente chi arriva prima guida le operazioni . Non so chi arrivò prima quel giorno, ma Porcellini stava eseguendo un massaggio su Morosini, dunque è probabile che sia arrivato lui per primo e che fosse lui il leader in quel momento. Molfese ha soltanto guardato e non ha fatto niente. C’era una grande confusione e nessuno dava disposizioni”.

Così ha invece asserito un volontario della Croce Rossa, Andrea Silvestre:

“Quando entrai in campo con la barella, mi accorsi subito che il giocatore non stava bene. Per precauzione andai a prendere il defibrillatore e lo aprii vicino alla testa del giocatore, senza accenderlo”. Dopodiché, a precisa domanda del pm, Silvestre ha specificato: “Non ho sentito nessuno dire di utilizzare il defibrillatore”. Circostanze, queste, confermate anche dall’infermiere del 118 Bruno Rossi e dalle volontarie della Croce Rossa Claudia Compagnoni e Alessia Consigli, tutti e tre presenti allo stadio quel giorno maledetto.

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Questa è stata la testimonianza del fisioterapista del Livorno calcio, Giacomo Bolognesi:

“Ero sull’ambulanza che trasportò Morosini in ospedale e ricordo che il dottor Paloscia eseguì un massaggio cardiaco durante il percorso. Qualcuno disse di utilizzare il defibrillatore, ma non venne fatto”.

È stata perciò fatta chiarezza? Se l’obiettivo era quello di dimostrare l’estremo marasma ed il panico generatisi in seguito all’infortunio del povero calciatore… allora sì, senza alcun dubbio. Frasi come: “…nessuno lo ha utilizzato e nessuno mi ha detto di utilizzarlo”…”C’era una grande confusione e nessuno dava disposizioni”…”Non ho sentito nessuno dire di utilizzare il defibrillatore”…” Qualcuno disse di utilizzare il defibrillatore”… Sono piuttosto eloquenti. Nessuno ha preso in mano la situazione da sicuro Team Leader, nessuno si è assunto delle precise responsabilità, nessuno ha dato chiare disposizioni e nessuno, di fronte alla propria incompetenza, ha pensato di farsi da parte in fretta.

Comunque… i fatti ci dicono che Piermario Morosini fu connesso ad un defibrillatore solo una volta arrivato al Pronto Soccorso di Pescara, quando oramai non c’era più nessun ritmo defibrillabile. E per lui, così come per i suoi sogni, non c’era più nessuna soeranza.

L’intera vicenda, oltre ad essere estremamente triste, ha evidenziato delle imbarazzanti lacune nella sicurezza degli stadi italiani e nella formazione di alcuni operatori sanitari che, in situazioni d’emergenza di questo tipo, seppur rare, dovrebbero sapere esattamente come comportarsi.

Alessio Biondino

Fonti: La Nazione, Eco di Bergamo, Agi.it

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