Riprendiamo un interessante articolo de La Stampa su un tema che interessa migliaia di donne italiane.
Subdolo e aggressivo. Ma pure curabile e talvolta prevenibile. Lo scenario nella lotta al tumore dell’ovaio, di cui ogni anno si ammalano 5.200 donne italiane, è in rapida evoluzione. La malattia rimane ancora tra quelle a peggior prognosi, tra quelle oncologiche: meno di una donna su due riesce infatti a superare i cinque anni dalla diagnosi (un tasso di oltre la metà inferiore a quello che si registra per il tumore al seno). Ma vale la pena di puntare l’attenzione soprattutto sugli scenari più incoraggianti emersi negli ultimi anni. Ovvero la possibilità di attaccare il tumore con farmaci più mirati della chemioterapia e l’opportunità di fare prevenzione, per ora limitata alle sole parenti delle donne già colpite dalla malattia.
Migliorare l’accesso al test genetico
Tremila morti ogni anno. Poco meno di cinquemila nuove diagnosi. Sono i numeri italiani del tumore dell’ovaio, una malattia che in otto casi su dieci viene scoperta quando ha già percorso troppa strada e lascia poche opportunità di cura. Ma se finora nessun esame ha dato garanzie per essere esteso all’intera popolazione femminile (screening), c’è un’opportunità che, secondo gli specialisti e le associazioni dei pazienti, deve riguardare le parenti delle donne già colpite da un carcinoma ovarico o da un tumore al seno. Si tratta del test genetico per valutare eventuali variazioni dei geni Brca (1 e 2) , responsabili di una quota compresa tra il 15 e il 25 percento delle nuove diagnosi di tumore dell’ovaio.
L’accesso (gratuito) al test per le pazienti diagnosticate con tumore ovarico e per le loro parenti di primo grado dovrebbe essere un diritto garantito in modo omogeneo in tutte le regioni italiane, secondo le raccomandazioni delle principali società scientifiche. Ma in molti casi non è ancora così. Secondo l’Alleanza contro il tumore ovarico (Acto), che per la giornata di oggi ha organizzato appuntamenti di sensibilizzazione in quattro regioni (Piemonte, Lombardia, Campania e Puglia), nel nostro Paese sono all’incirca due terzi le pazienti sottoposte al test Brca (prima o dopo la diagnosi).
E quasi il 60 percento di loro ha appreso di avere una mutazione genetica, un dato sensibilmente più alto rispetto a quello rilevato in altri Paesi del mondo. «Ciò vuol dire che molte pazienti, talvolta anche in Italia, devono rinunciare alle cure più idonee per il proprio tumore ovarico – avverte Sandro Pignata, direttore della struttura complessa di oncologia medica uro-ginecologica dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale di Napoli –. A ciò occorre aggiungere quei casi di malattia che sarebbero stati evitabili, se i parenti sani di una persona già colpita dalla malattia fossero stati sottoposti all’indagine genetica per verificare l’eventuale presenza di una mutazione dei geni Brca».
Come cambiano le terapie
Sempre più spesso, dunque, prevenzione e terapia per il tumore dell’ovaio viaggiano a braccetto con i cosiddetti “geni-Jolie”. Quanto alle cure, infatti, sempre più spesso si ricorre a dei farmaci di precisione chiamati Parp-inibitori. Questi, nelle pazienti che risultato positive alla mutazione dei geni Brca (il 20 per cento del totale), negli ultimi anni hanno rivelato avere un’efficacia più elevata rispetto alla chemioterapia (l’unica arma a disposizione fino a pochi anni fa, assieme alla chirurgia).
Adesso i ricercatori sono al lavoro per definire il miglior approccio terapeutico, che a ogni modo sarà quasi certamente combinato. La chemioterapia, cioè, non finirà presto in soffitta. Ma immaginare un utilizzo più razionalizzato e comunque in abbinata ai nuovi farmaci (ci sono anche gli antiangiogenetici, oltre ai Par-inibitori) è uno scenario molto vicino alla realtà.
I possibili campanelli d’allarme
La differenza, come detto, la fa però la diagnosi precoce. Conoscere e riconoscere i sintomi della malattia può salvare la vita. Il tumore ovarico si accompagna a sintomi non specifici – sensazione di sazietà anche a stomaco vuoto, gonfiore persistente all’addome, fitte addominali, bisogno frequente di urinare, perdite ematiche vaginali, stitichezza o diarrea – che rendono difficile la diagnosi tempestiva. Se questi sintomi sono persistenti, è il consiglio degli esperti, bisogna rivolgersi al medico.
Quando il carcinoma ovarico viene rilevato in fase iniziale (quando cioè il tumore è limitato alle ovaie), la possibilità di sopravvivenza a cinque anni può arrivare anche al 90 percento. Se il tumore viene rilevato quando è già esteso ad altri organi e con presenza di metastasi, al contrario, le percentuali possono essere ridotte anche di più di un terzo.
Redazione Nurse Times
Fonte: www.lastampa.it
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