Il carcinoma mammario, anche in fase metastatica, è oggi meno complicato da trattare.
Fino a qualche anno fa scoprire di avere un tumore al seno in fase metastatica equivaleva a una vera “scommessa” sull’esito delle cure. Oggi, grazie a equilibrate (e spesso personalizzate) strategie terapeutiche e nuovi farmaci, non è più così. Per le 5.300 donne italiane che nel 2019 hanno ricevuto una diagnosi di tumore del seno già in fase avanzata, esistono, infatti, nuove possibilità di cura e la possibilità di vincere la battaglia contro il cancro.
II carcinoma mammario metastatico è diventato una malattia trattabile. Un malato su quattro è vivo a cinque anni dalla diagnosi. I nuovi percorsi di cura sono stati al centro della sesta edizione dell’Intemational Meeting on New Drugs and Newlnsights in Breast Cancer, uno dei più importanti congressi internazionali sul tumore al seno, ospitato dall’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma. Hanno partecipato alcuni tra i più celebri ricercatori del mondo.
«In Italia vivono circa 815 mila donne dopo la diagnosi della malattia – spiega Francesco Cognetti, direttore di Oncologia medica del Regina Elena e presidente del Congresso –. Oggi abbiamo molte armi a disposizione: dalla chemioterapia all’ormonoterapia alle terapie target fino all’immunoterapia. Tutte le pazienti devono però essere trattate nelle Breast Unit, nei centri totalmente dedicati alla cura del cancro al seno. Qui, infatti, è più alta l’adesione alle linee guida, migliore l’esperienza degli specialisti ed è garantito uno studio della paziente dal punto di vista multidisciplinare».
Ma la novità che potrebbe cambiare il futuro della medicina oncologica e il destino di milioni di donne l’hanno dimostrata numerosi studi scientifici: la validità dei test genomici, esami in grado di orientare la scelta del tipo di terapia da adottare, con la possibilità, in circa il 40% delle pazienti, di evitare trattamenti chemioterapici particolarmente pesanti da sopportare. «Purtroppo, però, questi test sono disponibili e rimborsabili solo in Lombardia – ricorda Cognetti -. Quindi questa opportunità è di fatto negata a molte». La classica chemio resta un’arma fondamentale. «Se la malattia è in stadio iniziale – aggiunge Alessandra Fabi, oncologa dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena –, la strategia terapeutica può prevedere una combinazione di chirurgia, terapia farmacologica e radioterapia».
Il tumore, ormai è chiaro, è una malattia complessa, che non col pisce solo il corpo, ma anche la psiche. Troppo spesso la paura paralizza. Condizione che non aiuta la paziente a curarsi con fiducia e tranquillità. «Nonostante le alte percentuali di guarigione, si tratta di una patologia che spaventa – sottolinea Cecilia Nisticò, oncologa dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena –. Le donne vedono improvvisamente la loro vita stravolta e il corpo trasformarsi. Il compito dell’oncologo non è semplice perché, oltre a dovere individuare la cura migliore, deve essere in grado di sostenere e accompagnare la paziente, con determinazione, in un percorso non sempre facile senza mai perdere di vista il traguardo finale che è vivere».
La salvezza delle donne coincide sempre più spesso con una diagnosi precoce, ma le chances non mancano anche a quante arrivano alla diagnosi in ritardo. A loro disposizione, non più solo la chemio, ma la chirurgia conservativa, le chemioterapie combinate, le terapie ormonali e i farmaci biologici. La strategia vincente per combattere il big killer sembra andare in un’unica direzione: quella di terapie personalizzate, cioè tarate sulle caratteristiche specifiche delle pazienti.
Redazione Nurse Times
Fonte: Il Messaggero
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