Lo straordinario intervento chirurgico concluso ieri mattina presso l’ospedale Sant’Andrea di Roma è risultato essere motivo di orgoglio e vanto da parte di tutti i professionisti sanitari italiani.
Fabio Santanelli di Pompeo ha guidato l’équipe che ha regalato un volto nuovo ad una donna gravemente malata: «Al lavoro per 26 ore, affiatati come un’orchestra. Ho altri tre pazienti in lista»
Un team di chirurghi, anestesisti, infermieri, tecnici di radiologia e operatori sociosanitari per la maggior parte precari.
Ed è proprio il secondo chirurgo presente nell équipe a raccontare questa incredibile situazione, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera.
Precario?
«Esatto, Benedetto ha 40 anni, un curriculum eccellente, anni di esperienza ad Harvard, eppure non ha il posto fisso. Precario. Ha un contrattino da ricercatore alla Sapienza che riesco a coprire con i fondi raccolti grazie alla mia credibilità scientifica. Guadagna quanto una colf, con tutto il rispetto per le colf. Si gratifica con le soddisfazioni al tavolo operatorio».
Perché succede?
«L’Italia ha perso di vista le cose importanti da molti, troppi anni. Sono mancati governanti illuminati. Noi per questo trapianto eravamo pronti già da tempo. In Francia sono già a 7, siamo arrivati perfino dopo la Turchia, ripeto, la Turchia. La mia soddisfazione è che ora non devo dire grazie a nessuno tranne che alla volontà di aiutarci mostrata da ministero della Salute e Centro nazionale trapianti. Da noi le persone che valgono sono considerate rompiscatole».
Come si sente dopo la maratona chirurgica?
«Non molto diverso rispetto a prima, contento come quando torno a casa dopo aver aiutato un paziente. La mia è una chirurgia ad alta complessità, per niente remunerativa se non sul piano umano perché riusciamo presuntuosamente a restituire un pezzetto di vita a coloro ai quali non era stato concesso. Ogni volta che operiamo, si amplia la nostra famiglia di fratelli, cugini e figli acquisiti che ci mostrano affetto e riconoscenza».
Ci racconti questa prima volta.
«Tutto è andato bene, nessun imprevisto, abbiamo seguito il protocollo molto rigido approvato nei dettagli dal ministero della Salute dal punto di vista chirurgico, etico e della comunicazione. Un fascicolo di molte pagine non una paginetta. Come in un’orchestra, ognuno ha suonato il suo brano. Nel corso delle 26 ore in sala operatoria si sono dati il cambio 10 anestesisti e un centinaio di assistenti in sala operatoria, ma noi sette chirurghi plastici non ci siamo mossi. C’erano anche due colleghi svizzeri ai quali ho chiesto di unirsi a noi per potenziare le nostre competenze. Come segretario generale della società europea ho rapporti internazionali e so dove pescare i migliori».
Come vi siete preparati?
«Avevo già fatto la stessa operazione a Göteborg, avevo 30 anni, il mio primo training. Durò 27 ore. Non so dire se sono stanco adesso, l’adrenalina è rimasta in circolo e se mi stendo sul letto gli occhi restano fissi al soffitto anche se stanchissimo. Sono molto resistente. A queste performance fisiche e di concentrazione si arriva osservando stili di vita adatti, costruiti in una vita. Un esempio banale? Niente aperitivi alcolici. Il futuro? Abbiamo in lista per il trapianto di viso altri tre pazienti per un totale di 5 previsti dal protocollo».
Ci parli di lei.
«Per fortuna sono napoletano e dico per fortuna perché è un valore aggiunto. Ho cominciato a fare il medico nella mia città, poi la Svezia e dal ‘90 alla Sapienza. Sto scrivendo un libro dove racconto la mia esperienza professionale, si intitola «Giurami su tuo padre», a indicare i ricatti morali che si è costretti a subire. Il mio doppio cognome? Quel di Pompeo è di mamma. All’epoca feci una lunga trafila per unirlo».
Simone Gussoni
Fonte: Corriere della Sera
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